Morto per il lavoro - di Riccardo Chiari

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Giulio Regeni è stato torturato e ammazzato perché era andato ad ascoltare un’assemblea sindacale, aveva preso appunti, e aveva intervistato alcuni delegati. Poi ne aveva scritto, su un sito specializzato internazionale. Perché nostra patria è il mondo intero. E chi una volta si è emozionato, approfondendo la storia del movimento operaio, sa bene di cosa si parla.

Eppure Giulio Regeni non era un giornalista, anche se magari un giorno avrebbe potuto scegliere di farlo. Era uno studente, specializzato e pagato (poco) da una università inglese, che senza riflettere (nella migliore delle ipotesi) aveva dato al giovane poliglotta italiano il compito di preparare una ricerca sulla esplosiva realtà sociale dell’Egitto di oggi: lo stato più popoloso e importante dell’Africa mediterranea, snodo geopolitico cardinale.
Talmente importante da far accettare senza battere ciglio ai “cantori della democrazia” il colpo di stato militare che ha spodestato i legittimi vincitori delle elezioni. Anche se oggi, negli Usa, la Casa Bianca ha già raccontato al New York Times chi, come e perché è stato ammazzato Giulio Regeni.

Scrive il giornalista Beppe Giulietti: “A questo punto, per usare la metafora pasoliniana, non occorrono neppure le prove.
I mandanti e gli esecutori stanno nel “palazzo” egiziano, e per questo non dovrà essere concessa alcuna tregua politica fino a quando non sarà resa giustizia a Giulio Regeni, ai suoi familiari, ai suoi amici. Il fiume di denaro che corre fra Italia ed Egitto non può travolgere gli ultimi argini a protezione dei diritti civili, e del rispetto della dignità umana”.

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