Per Dario Fo - di Riccardo Chiari

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In casa aveva appeso, come fanno gli adolescenti con i loro artisti preferiti, la famosa foto che ritrae, sorridenti, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Due magistrati, due rappresentanti indomiti di quel potere che i Costituenti della nostra repubblica hanno voluto tracciare in chiave di tutela del debole di fronte al forte. Non è mai cambiato Dario Fo, che nel 1962, quando era già popolarissimo, si vide censurato un suo illuminante sketch sulle morti bianche. A Canzonissima, non in terza serata.

“Non si parla più del presente – ammoniva pochi anni fa i giovani appassionati di teatro - io dico: fate anche delle cose del passato, ma che abbiano un rapporto di capovolgimento, il grottesco dello specchio contorto, per cui finalmente si vede la verità attraverso la deformazione. Questo ora non c’è più. E questa è una cosa che si paga”. Proprio vedere la verità attraverso la deformazione l’ha condotto all’amico Beppe Grillo e, per forza di cose, alla creatura politica dell’artista genovese.

Abbiamo vissuto per tanti anni assieme a un re che ha messo alla berlina – castigat ridendo mores - tutti i re del mondo. Un inventore della lingua, premiato con il Nobel. Un difensore instancabile delle ragioni degli ‘have nots’ italiani. Un uomo che, è stato detto, con la compagna della vita Franca Rame ha reso questo paese migliore, offrendo giorno dopo giorno, per settant’anni, il suo contributo alla satira, alla cultura, alla storia e all’impegno politico. Contro ogni censura, e contro ogni forma di conformismo e perbenismo. Cosa si può chiedere di più a un uomo che è sempre stato a sinistra?

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