Nando DAlla Chiesa contribuisce a far conoscere il nuovo movimento antimafia, descrivendone azioni e protagonisti e proponendone un profilo ideale

Con la graduale trasformazione dei partiti di massa in partiti personali dei leader è cambiata la natura e la composizione del movimento antimafia. Come segnala l’interessante pampleth di Nando Dalla Chiesa “Manifesto dell’Antimafia” (Einaudi pagg. 109 E 10,00), in quest’ultimo trentennio si è sviluppato un “poliedrico universo antimafioso” che capillarmente si è diffuso in varie forme e modalità su tutto il territorio nazionale, riuscendo a mobilitare decine di migliaia di persone. In particolare spicca il ruolo dell’associazione Libera, fondata nel 1995 da Don Ciotti. Oltre a promuovere gli Stati generali dell’Antimafia, ha dato vita ad una vera e propria economia antimafiosa, no profit, intervenendo sulla destinazione sociale dei beni confiscati alle mafie e generando sia nuove forme di imprenditorialità che una discreta mole di occasioni di lavoro, in territori ove la disoccupazione è dilagante come nel Sud d’Italia. Al contempo, grazie all’elaborazione teorica del Centro Documentazione Peppino Impastato, diretto da Umberto Santino, che ha veicolato in chiave marxista i concetti di accumulazione e borghesia mafiosa, e al contributo più che ventennale della rivista Narcomafie, la parte più sensibile e avanzata del paese si è dotata di quegli strumenti di conoscenza scientifica necessari per combattere il dilagante fenomeno mafioso. Se, come sostiene Dalla Chiesa, “la forza vera della mafia sta fuori dalla mafia”, nella vasta area grigia della società, composta dalle figure del complice, del codardo e del cretino, che ne favorisce l’ espansione in tutto il centro nord, compito ambizioso del Manifesto è l’individuazione dei caratteri distintivi di una società antimafiosa e delle proposte per confrontarsi e sfidare la politica, l’ imprenditoria e la magistratura. Le contraddizioni interne alla magistratura appaiono sempre più un freno al dispiegarsi della lotta alla mafia. Riprendendo le intuizioni di Ilda Bocassini, della Direzione distrettuale antimafia di Milano, emerge come non possano essere chiamati i magistrati di provincia, senza alcuna specializzazione, ad occuparsi e a giudicare problemi di tale complessità come la non facile dimostrazione del reato di associazione mafiosa. Sul fronte del mondo imprenditoriale si sono rivelati pura retorica gli inni alle virtù salvifiche del libero mercato e della concorrenza, conditi dagli immancabili strali contro la politica corrotta, quando poi la stragrande maggioranza delle imprese, come ha documentato Enzo Ciconte in “‘Ndrangheta padana”, hanno stretto patti o si sono piegati alle intimidazioni e alle minacce delle cosche mafiose. Senza erigere quelle barriere di comportamenti concreti e irreprensibili per impedire che le cosche la facciano da padrone nell’aggiudicazione dei sub-appalti delle grandi opere, oppure gestiscano i mercati ortofrutticoli di Fondi e di Milano. Infine, il capitolo dolente della politica, che Dalla Chiesa aveva già affrontato criticamente nel libro “La convergenza” denunciando come il centro-sinistra nel 1996-2001 avesse “progressivamente smontato il precedente clima di mobilitazione e d’impegno istituzionale”, delegando il contrasto alle mafie esclusivamente alle forze dell’ordine e alla magistratura. Dopo la lunga stagione del berlusconismo, contraddistinta da una profonda lesione del principio di legalità, il fenomeno mafioso non è tra le priorità dell’attuale governo. Le mafie proseguono in maniera silente nei loro affari legati al narcotraffico e occupano parecchi gangli vitali dell’economia: risulta difficile immaginare un’adeguata azione di contrasto senza una rigenerazione morale e democratica del sistema dei partiti, a cominciare da una diversa selezione del ceto politico ed una strenua difesa dell’impianto costituzionale. l

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