Per contrastare l’ipocrisia su quanto accade in molte campagne del nostro paese, dal Piemonte alla Puglia, va chiarito un dato di fatto: i caporali non esisterebbero senza imprese che utilizzano questo sistema e lo aiutano a crescere ed estendersi


I mesi di luglio e agosto sono stati funestati dalle morti sul lavoro di lavoratrici e lavoratori agricoli. Casi spesso occultati, che si volevano far passare per incidenti o malori sopraggiunti per strada o in luoghi lontani dall’azienda nella quale lavoravano.

Grazie alle denunce della Flai Cgil nei territori, e di giornalisti coraggiosi, questi casi sono stati riconosciuti come morti sul lavoro. E si è venuti a capo di una filiera di sfruttamento che tiene soggiogati centinaia di lavoratrici e lavoratori, sia italiani che immigrati. Non solo in Puglia ma anche in Piemonte, ad esempio nella provincia di Torino.

Se qualcuno aveva ancora dei dubbi che lo sfruttamento non fosse una peculiarità del sud del paese, quello che è accaduto nel corso dell’estate fa, purtroppo, chiarezza. Se si pensava che il caporalato fosse un fenomeno odioso che prende in trappola solo i lavoratori immigrati, la cronaca delle tragedie di queste settimane offre la prova provata che il fenomeno criminale riguarda ancora migliaia di lavoratori italiani. Non solo nel meridione. Sono fatti che la Flai ha sempre denunciato negli anni scorsi, lanciando diverse campagne contro il caporalato e lo sfruttamento nei campi, e per il collocamento pubblico in agricoltura.

Ora c’è tanto clamore attorno a queste tragedie, e si invocano leggi ferree per contrastare un fenomeno insopportabile per un paese civile. Ma c’è anche tanta ipocrisia: molti sperano che, spente le luci della cronaca, questa situazione sia dimenticata. A quel punto si potrà nuovamente “lavorare in pace”. Basta però girare i cimiteri di Villa Literno, Castel Volturno e dei paesi agricoli del circondario, per vedere diverse tombe che non hanno nome. Sono i luoghi di sepoltura di tanti immigrati che vengono trovati ai bordi delle strade di campagna, a volte investiti dalle auto ma spesso scaricati lì perché sono morti durante il lavoro, in campagna o in un cantiere.

Per combattere l’ipocrisia non va dimenticato un libro di Alessandro Leogrande (“Uomini e caporali, viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud”), che già nel 2008 denunciava le condizioni di lavoro nelle campagne pugliesi e la sparizione di decine di lavoratori, anche polacchi, che osavano ribellarsi ai caporali o morivano di lavoro. L’ipocrisia fa finta di non conoscere i dati della seconda edizione del “Rapporto agromafie e caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil. Numeri drammatici, ripresi in questi giorni dai media, e che parlano di quanto sia esteso lo sfruttamento.

Il ministro Martina ha promesso misure di contrasto entro poche settimane. Potrebbe essere positivo un approccio simile alla lotta alla mafia. Interessante anche la confisca dei beni, purché colpisca le imprese che si servono di caporali e non solo questi ultimi. Ma un altro elemento di novità potrebbe essere l’approvazione per decreto dell’articolo 30 del collegato agricolo, che giace da qualche mese a Montecitorio e che dà poteri e funzioni alla “Rete del lavoro agricolo di qualità”. In esso vengono riprese molte richieste che la Flai ha avanzato negli anni scorsi e che, nel febbraio 2014, dettero vita alla presentazione di un ddl in Parlamento insieme a Fai-Cisl e Uila-Uil.

Per contrastare l’ipocrisia su quanto succede in molte campagne del nostro paese, bisogna avere chiara una cosa: i caporali non esisterebbero senza imprese che utilizzano questo sistema e lo aiutano a crescere e ad estendersi. Il caporalato garantisce lavoratori “disciplinati” e “disponibili” ad essere sottopagati e a fare orari fuori dal Ccnl. Garantisce il trasporto fino al campo dove si deve lavorare quella giornata. E assume spesso gli oneri della gestione del lavoro.

Le morti di questa estate non sono avvenute nei pullman o durante il trasporto. Gli operai e le operaie agricole sono morti nelle imprese dove lavoravano, sottopagati e in condizioni inumane. Il caporalato è solo un anello, va spezzata l’intera catena dello sfruttamento e del ricatto che imprigionano le lavoratrici e i lavoratori agricoli in molte zone del nostro paese.

Per questo la Flai chiede di intensificare i controlli, spesso inesistenti. Di estendere il reato penale di caporalato anche alle imprese utilizzatrici, e di togliere loro ogni finanziamento pubblico, garantendo protezione ai lavoratori che denunciano lo stato, drammatico, delle cose.

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