Nel bene e nel male, la storia della chimica italiana passa da Bussi nel Tirino. In questa valle del pescarese, addirittura dalla fine dell’Ottocento si è concentrata una delle più importanti produzioni chimiche del paese. L’idrogeno prodotto a Bussi permise al dirigibile Norge di raggiungere il Polo Nord. Ancora oggi si ricordano nella val Pescara i nomi di alcuni pionieri dell’industria chimica italiana, come Guido Donegani e Giacomo Fauser. Cartoline dall’Italia che affrontava la sfida della modernità. Produzioni civili ma anche militari, gelosamente custodite dal fascismo e prima ancora dai governi del Regno d’Italia, che utilizzarono il sito di Bussi per preparare le terribili armi chimiche della grande guerra.

Il lato oscuro della medaglia è quello rappresentato dai residui delle lavorazioni. Le fosse imbottite di rifiuti tossici, fra i monti Schiena d’Asino, Pietra Spaccata e Castelluccio, raccolgono l’immondezzaio chimico più grande d’Europa. Quando il Corpo forestale dello Stato, nel 2007, rivelò all’Italia del ventunesimo secolo l’esistenza di quella che sui giornali e in televisione fu definita ‘la discarica dei veleni’, un brivido percorse il paese. Ben 240mila tonnellate di terreno intriso di sostanze altamente tossiche e micidiali per la salute umana. Ne seguirono inchieste e processi tutt’ora aperti. Quanto alle bonifiche, si procede fin troppo lentamente, fra croniche mancanze di fondi statali e compravendite del sito industriale.

Tra gli attori in scena, con un ruolo da coprotagonista, non poteva non esserci la Solvay, multinazionale della chimica per eccellenza. Giovanni D’Addario lavora alla Solvay di Bussi da quando quest’ultima subentrò alla Montedison. “Ancor prima - racconta - sin dal 1995, ero impiegato proprio alla Ausimont, (azienda della galassia Montedison, ndr). Vengo dal settore metalmeccanico. A quei tempi lungo la strada che porta a Bussi c’era di tutto, comprese la produzione di autocarri. Ora è un deserto o quasi”.

Sono rimasti in meno di un centinaio a lavorare per la multinazionale belga. “Una settantina di addetti diretti e una trentina indiretti - puntualizza D’Addario - oltre alla Solvay ci sono altre due aziende che operano nel sito: la Silysiamont spa, una joint venture 50/50 fra Solvay e la giapponese Fuji Silysia, con quindici dipendenti, e l’Isagro, che produce fungicidi, con altrettanti dipendenti. I dati ufficiali parlano di 137 addetti, i lavoratori in mobilità sono 19. Comunque la crisi viene da lontano, basti pensare che nel 2002, quando Solvay prese la proprietà da Ausimont, c’erano 650 dipendenti diretti più 200 indiretti. Il calcolo è presto fatto: in tredici anni si sono persi 500 posti di lavoro”. Sono rimasti pochi, ma molto sindacalizzati, storicamente. “Il 95% di noi ha una tessera in tasca, la metà quella della Filctem Cgil. Tutti iscritti tranne direttore e capo del personale”, scherza D’Addario, che fa parte della segreteria della Filctem di Pescara.

All’orizzonte sembra esserci un nuovo investitore, la Filippi Farmaceutica, che ha chiesto di entrare nel sito della Solvay dopo la bonifica, e che garantirebbe 300 posti di lavoro. “Una ipotesi che però rischia di svanire - osserva D’Addario - se non si definirà un accordo che faccia ripartire il sito. Per giunta il piano industriale della Filippi, atteso da due anni, è ancora un grosso punto interrogativo. Saremo molto vigili”.

Dopo la discarica sono state scoperte aree contaminate anche dentro il perimetro della fabbrica chimica e in zone attigue, che per essere riutilizzate necessitano di messa in sicurezza e bonifica. Opere finanziate con una cinquantina di milioni affidati al commissario, e l’impegno di Solvay ad eseguire il lavoro interno al sito per circa 5 milioni. “Dal 2011 ad oggi è stato fatto ben poco - tira le somme D’Addario - eppure i dati sull’inquinamento sono drammatici, riguardano il fiume Pescara e poi il mare Adriatico. Un’area dove ancora si vive di agricoltura”.

Si tratta di un territorio altamente sismico, duramente segnato dal terremoto de L’Aquila del 2009. Un territorio sfruttato, dove si è fatta chimica ininterrottamente per più di un secolo, e dove ora c’è una comunità di lavoratori esperti che vede molte, troppe nubi all’orizzonte. “Quando si parla del sito di Bussi si parla di stabilimenti chimici fra i più importanti del paese – ribadisce D’Addario - ma i danni fatti al territorio sono incalcolabili. E non penso che i soldi stanziati basteranno per risanare l’area”. Un sos agli enti locali abruzzesi e al governo, da un comprensorio di incomparabile bellezza, fra le montagne e il mare, incastonato fra il parco della Maiella e quello del Gran Sasso. Un territorio da salvare, insieme ai suoi lavoratori.

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