Con 376 voti, il parlamento monocamerale turco ha votato la revoca dell’immunità per i parlamentari, decisione presa per colpire quasi tutti i deputati dell’Hdp (Partito democratico dei popoli, all’opposizione) sotto processo perché accusati di fiancheggiare il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan. E’ l’ultimo atto di una guerra alla democrazia che il partito Akp sta portando avanti da tempo contro quanti non si allineano alla sua politica di accentramento del potere e di annientamento delle opposizioni, soprattutto quella curda.

L’Akp ha trovato alleati anche negli altri due principali partiti, il Chp (fondato da Mustafa Kemal Ataturk, oggi si definisce “socialdemocratico”) e il Mhp, fortemente nazionalista legato alla formazione fascista dei “lupi grigi”. Pur di spingere l’Hdp fuori dall’arena politica, hanno votato contro se stessi: è solo questione di tempo perché venga anche il loro turno di essere estromessi dal Parlamento, se non si allineeranno alla svolta autocratica di Erdogan, il cui obiettivo resta la modifica presidenzialista della Costituzione. Come dimostra anche la defenestrazione del primo ministro Davutoglu - che si era ritagliato un ruolo autonomo di negoziatore con l’Unione europea, come sulla questione dei profughi - e la sua sostituzione con il più fedele Yildirim.

Guardando indietro, va soprattutto stigmatizzata la decisione del governo di interrompere il processo negoziale con l’Hdp e con Abdullah Ocalan, il presidente del Pkk in carcere da sedici anni sull’isola di Imrali (per la cui liberazione è stata lanciata una campagna dai sindacati inglesi: Gmb, Unite e altri), che stava faticosamente portando alla speranza di una soluzione democratica alla questione curda. E’ così ripreso un conflitto che già in passato ha portato morte, distruzione e esilio per i curdi: il ritorno alla dura repressione degli anni ‘90, con l’adozione di rigidi coprifuochi nelle città dove l’Hdp aveva vinto le elezioni, l’assedio di interi quartieri che hanno sperimentato una distruzione paragonabile a quella di molte città siriane, l’uccisione brutale di decine di civili bruciati vivi negli scantinati, con la scusa di “operazioni antiterrorismo”.

Sono fatti su cui l’Europa non ha speso una parola di critica, preoccupata solo di contenere la deriva populista al suo interno e di trovare ogni mezzo – anche contro le norme internazionali sulla protezione di chi fugge dalle guerre – per fermare l’arrivo dei profughi. E’ facile per le destre xenofobe europee imputare la sofferenza dei ceti medio-bassi all’arrivo dei profughi, invece di andare alla radice delle diseguaglianze, che si trova nell’adozione del modello neoliberista, nel saccheggio delle risorse dei paesi mediorientali e africani, nell’instabilità mondiale dovuta alle politiche neoimperialiste, in continuità con la spartizione del Medio Oriente con righello sulla carta geografica dell’accordo Sykes-Picot di cento anni fa.

Faysal Sariyildiz, un deputato Hdp che rischia svariati anni di prigione dopo la revoca dell’immunità, ha parlato di “fascismo postmoderno”, riferendosi ai massacri di civili bruciati vivi nella città curda di Cizre. I paralleli con l’ascesa al potere di Hitler sono realistici e preoccupanti, mentre risibile è la difesa di Erdogan in quanto “votato” dalla maggioranza dei cittadini. Quando un solo uomo controlla tutta la stampa, i tribunali, gli incarichi politici; quando se a giugno non gli sta bene un risultato alle elezioni scioglie il Parlamento e ne indice di nuove per novembre, conducendo nel frattempo una guerra contro i civili, dipingendo le donne, i bambini, i vecchi curdi come “terroristi”, allora può anche manipolare l’opinione pubblica per rafforzare la propria politica.

Ma sempre più crepe si aprono in questa granitica compromissione fra gli interessi di Erdogan e gli interessi europei, mostrati con il vergognoso accordo per respingere i profughi. C’è per fortuna una grande mobilitazione internazionalista dal basso, accesa dall’esperimento di autonomia democratica che si sta portando avanti nel Rojava, il Kurdistan occidentale. Qui i curdi, non schierati né con il regime di Assad, né con le cosiddette “opposizioni” composte anche da formazioni radicali islamiche, hanno dato vita a una democrazia radicale: il popolo decide e tiene insieme le varie componenti religiose, etniche e di genere, per amministrare “il bene comune”, ritagliandosi uno spazio da non allineati alle grandi potenze – Usa e Russia in primis – e ai loro interessi nella regione.

L’Hdp non rappresenta solo i curdi, ma anche la parte crescente della società turca che non si riconosce nelle politiche del governo e negli ultimi sviluppi da colpo di stato. C’è da augurarsi che i governi europei se ne accorgano prima che sia troppo tardi.

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