Gli immigrati contribuiscono al Pil per l’8,6%. La crisi li ha colpiti di più, aumentando le distanze con i lavoratori autoctoni.

L’immigrazione degli ultimi 15 anni ha contribuito a contenere il declino demografico e occupazionale del nostro paese: nel 2015 hanno la residenza in Italia 5 milioni di stranieri (per il 70% non comunitari), circa 3,5 milioni in più rispetto al 2003. L’aumento degli immigrati residenti ha, però, recentemente rallentato, con incrementi anno su anno decrescenti, nell’ordine del 7% nel 2013, del 4,9% nel 2014, e del 2% nel 2015.

Ormai da anni parte integrante del tessuto produttivo, gli immigrati contribuiscono in misura crescente a produrre ricchezza: nel 2014 il loro apporto è stimato in circa 125 miliardi di euro, pari all’8,6% del Pil totale (Fondazione Leone Moressa). La partecipazione degli immigrati all’economia del Paese è evidente nelle statistiche relative ad attività e occupazione: il tasso di attività riferito alla popolazione in età da lavoro (15-64 anni) è molto più alto fra gli stranieri, in particolare comunitari (74,6% in media 2015), che fra gli italiani (63,3%).

Terzo paese europeo per presenza di stranieri in termini assoluti (dopo Germania e Regno Unito), l’Italia è l’unico dove il tasso di occupazione (15-64 anni) dei residenti immigrati (58,9% nel 2015) supera quello dei nativi (56%). Ma la crisi ha colpito con maggiore intensità la forza lavoro straniera rispetto alla forza lavoro italiana: nonostante l’aumento del numero di lavoratori immigrati – la cui incidenza sull’occupazione totale ha raggiunto il 10,5% nel 2015 – il tasso di occupazione degli stranieri ha perso quasi 9 punti, e la differenza col tasso di occupazione degli italiani è diminuita progressivamente nell’arco di sei anni (dal 2007 al 2013), dai 9 punti del 2007 ai 3,1 punti del 2013.

Specularmente, il tasso di disoccupazione degli stranieri è cresciuto di quasi 9 punti fra il 2007 e il 2013, e la distanza dal tasso di disoccupazione degli italiani è passata da 2,4 punti del 2007 a 5,6 del 2013. Nel 2014 e nel 2015, con i primi segnali di ripresa, si attenua la tendenza dei tassi di occupazione di immigrati e italiani a scendere e convergere verso il basso, e dei tassi di disoccupazione a salire e divergere verso l’alto.

Se la crisi ha inciso profondamente sull’occupazione degli immigrati, quali conseguenze ha prodotto sulla qualità del loro lavoro? Le statistiche descrivono un quadro caratterizzato da sotto-occupazione e precarietà del rapporto: gli stranieri in età 15-64 anni che lavorano sotto condizioni diverse da quelle auspicate in relazione alla durata del contratto, oppure rispetto al tempo di lavoro (in condizioni di disagio occupazionale) sono 827 mila nel 2015: dipendenti a tempo determinato e collaboratori che riferiscono di non avere trovato un impiego a tempo indeterminato (358 mila), e lavoratori part-time (dipendenti e autonomi) che svolgono un lavoro a tempo parziale perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno (470 mila). Il tasso di disagio, vale a dire il rapporto fra gli occupati nell’area del disagio e la totalità degli occupati in età 15-64 anni, è molto più elevato fra i lavoratori stranieri (35,6%) che tra quelli di cittadinanza italiana (18,5%), e la differenza tra i tassi è cresciuta sensibilmente negli ultimi anni e fino al 2014, attestandosi nel 2015 a +17,1 punti.

Un lavoro, quello degli immigrati, ottenuto soprattutto attraverso le reti informali (circa il 60% dei casi contro il 27% degli italiani). E’ una modalità di accesso che non aiuta la mobilità all’interno del mercato, ostacola la progressione delle carriere, tende a perpetuare condizioni di sotto-qualificazione e segregazione occupazionale: quasi il 70% dei lavoratori stranieri si concentra in 10 comparti, soprattutto lavoro domestico e di cura, ristorazione, edilizia e agricoltura, mentre il 63% è distribuito su dieci professioni soltanto, di cui quattro non qualificate (colf, addetti alle pulizie, facchini e braccianti); le stesse dieci professioni interessano poco più del 21% dei lavoratori italiani.

Si tratta di un fenomeno rilevante, che ha nel differenziale retributivo una misura impietosa: a parità di ore lavorate, gli stranieri guadagnano circa un quarto meno degli italiani e – nel corso dell’ultimo quinquennio – la distanza si è ulteriormente ampliata. Anche i titoli di studio aiutano meno gli immigrati rispetto agli italiani nella ricerca di un lavoro, e più spesso le competenze acquisite non sono valorizzate come dovrebbero.

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