I suicidi degli operai Fca di Pomigliano mandati al confino nei reparti punitivi, cassintegrati a oltranza, o licenziati in tronco, sono stati tragicamente reali. Quello del manichino Marchionne, roso dal rimorso per i lavoratori che si erano tolti la vita, è stato soltanto una, amarissima, rappresentazione satirica. Nel merito potrebbe essere questa la chiave di lettura che ha portato i giudici del lavoro del Tribunale di Napoli a cancellare il licenziamento di cinque operai, deciso da Fca con la motivazione lunare della “rottura del rapporto di fiducia”. In punto di diritto invece è bene ricordare l’articolo 2105 del codice civile, che dispone solo che il lavoratore non tratti affari in concorrenza con l’imprenditore, né divulghi notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o ne faccia un uso che possa recarle danno.

Niente di tutto questo era stato commesso dai cinque operai di Pomigliano, che avevano semplicemente criticato il padrone con una protesta satirica forte, ma adeguata alle ripetute tragedie cui avevano dovuto assistere. In realtà quello dei cinque lavoratori Fca era stato un licenziamento politico, che colpiva la libertà di opinione degli operai come cittadini della Repubblica. Così come hanno sostenuto, a gran voce, rappresentanti sindacali e politici, giuristi, intellettuali, artisti, e tanti cittadini comuni che hanno dato concreta solidarietà agli operai. Ora possiamo dire che ci sono dei giudici a Napoli. E che re Marchionne è, ancora una volta, nudo. Al pari del supposto primato dell’impresa, e del cosiddetto “mercato”, nei confronti del lavoro. 

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