La sentenza del Tar del Lazio contro il numero chiuso nelle facoltà umanistiche della Statale di Milano è storica e di portata nazionale.

Nei mesi scorsi ha tenuto banco su molti quotidiani nazionali e locali la vicenda dell’introduzione della programmazione dell’accesso nei corsi della facoltà umanistiche dell’Università degli studi di Milano. Numero chiuso che era fortemente voluto dalla governance dell’ateneo, in primis dal rettore Gianluca Vago, mentre era osteggiato da chi subiva sulla propria pelle questa scelta: professori e studenti dei corsi interessati. L’introduzione di tale misura nelle facoltà che per eccellenza dovrebbero rappresentare il luogo della crescita personale, sociale e culturale, mascherata dietro la necessità di conformarsi al decreto ministeriale 987/2016 relativo all’accreditamento dei corsi, era in realtà una scelta politica assai chiara: andare verso un’università sempre più elitaria e classista.

A nulla sono servite le mobilitazioni e le assemblee dei mesi precedenti, che hanno visto crescere un dissenso trasversale contro le scelte imposte dalla governance; a nulla sono serviti i vari appelli di intellettuali di primo piano usciti sulla stampa. Il rettore ha tirato dritto e il Senato Accademico della Statale di Milano ha votato favorevolmente all’introduzione della programmazione dell’accesso nei corsi delle facoltà umanistiche, seppure con una maggioranza risicata e contestabile di 18 favorevoli e 17 contrari.

Lo scorso 25 luglio, di fronte a questa sordità delle istituzioni, ci siamo visti costretti a ricorrere al Tar del Lazio, avvalendoci dei nostri legali dello studio Bonetti&Delia, impugnando la delibera dell’ateneo milanese, che a nostro avviso conteneva vizi formali e sostanziali. Non solo una maggioranza “illegittima”, dato che il 18esimo voto favorevole era arrivato con modalità non previste dallo Statuto di ateneo; ma anche un mancato rispetto della normativa nazionale, visto che le motivazioni addotte facevano riferimento esclusivo al rispetto dei requisiti del decreto ministeriale 987/2016, il cosiddetto “Ava” (che contiene i criteri di accreditamento dei corsi universitari) e non alla legge di riferimento del numero chiuso, ossia la 264/1999.

Proprio su questo il tribunale amministrativo si è pronunciato e ci ha dato ragione in tempi brevissimi, con una sentenza storica che sta avendo ricadute su tutto il territorio nazionale: è possibile introdurre il numero chiuso solo in quei corsi che prevedano nell’ordinamento didattico l’utilizzazione di laboratori ad alta specializzazione, di sistemi informatici e tecnologici o comunque di posti-studio personalizzati. La sentenza quindi sancisce che per introdurre i numeri chiusi locali non è sufficiente quanto indicato nei nuovi criteri per l’accreditamento dei corsi, tra cui quello relativo al rapporto docenti-studenti su cui si basava la delibera della Statale.
Una sentenza appunto storica e di portata nazionale, visto che dall’emanazione dell’ultimo decreto ministeriale a firma Giannini erano proliferati i corsi ad accesso programmato nelle università italiane.

Il rettore Vago, dopo un primo momento in cui sembrava voler appellare la decisione, ha dovuto riconoscere la sconfitta politica e legale e accettare tutta la linea imposta dall’Unione degli Universitari: ora gli studenti sono liberi di iscriversi nell’ateneo milanese nei corsi che avevano scelto per il proprio futuro e per la propria formazione. Nessuna barriera all’accesso.
Da quel momento è iniziata per noi una battaglia nazionale, un #effettodomino con il quale stiamo provando a smontare in molti atenei italiani la programmazione dell’accesso. Abbiamo chiesto ai rettori di tutte le università italiane di sospendere in via di autotutela le delibere relative all’introduzione di “numeri chiusi”, altrimenti siamo pronti a paralizzare il sistema presentando una pioggia di ricorsi amministrativi sulla scia di quello di Milano. Abbiamo chiesto al ministro di ritirare il decreto ministeriale 987/2016 e abrogare la legge 264/1999, ormai superata nei fatti.

La possibilità di programmare l’accesso è stata in questi anni una delle cause che ha permesso il definanziamento del sistema universitario italiano: è venuto il momento di dire basta, è venuto il momento di invertire la rotta. Noi non ci fermeremo finché non avremo raggiunto l’obiettivo: vogliamo una università finalmente libera e accessibile.

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