“Ali Muse è morto per colpa dello Stato”, si leggeva sullo striscione che un centinaio di migranti mostravano nel cortile di Palazzo Strozzi a Firenze. I richiedenti asilo avevano occupato gli spazi della mostra sull’emergenza profughi del dissidente cinese Ai Weiwei.

Protestavano dopo la morte di Ali Muse, asfissiato nell’incendio di un capannone occupato. Alì Muse aveva trentotto anni, era somalo e titolare di protezione internazionale. Dal 2008 era in Italia, per un breve periodo aveva vissuto in un centro di accoglienza, poi sempre in edifici occupati, in assenza di alternative.

Una volta scoppiato l’incendio era riuscito a mettersi in salvo. Ad ucciderlo è stata la decisione di rientrare per recuperare i documenti necessari ad ottenere il ricongiungimento con la moglie e i due figli, riparati in Kenia per fuggire dalla guerra civile. Di fronte alla tragedia, anche Ai Weiwei ha voluto dire la sua: “In questa dura stagione invernale, la mia preoccupazione è per la gente che trova riparo in questi rifugi e campi temporanei, in particolare le donne e i bambini.

Ho visitato decine di campi profughi in tutto il mondo. La maggior parte di questi luoghi sono in cattive condizioni, scomodi, pericolosi e privi delle necessità primarie per la vita.

L’Ue deve esaminare attentamente la propria posizione in materia di diritti umani, e di ciò che l’umanità considera valori fondamentali. Si deve lavorare per porre fine alle guerre e sostenere i rifugiati che si trovano già sul suolo europeo. Non possiamo permettere che questi eventi vergognosi continuino”. Sarà ascoltato?

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