Il settore della produzione del cemento, pur essendo piccolo in termini di dimensioni (circa ottomila addetti diretti), è particolarmente strategico per l’industria di ogni paese. La dura crisi subita dal settore delle costruzioni, negli ultimi nove anni, ha portato il settore ad una continua ristrutturazione, con chiusure di decine di impianti di produzione (forni). Nella provincia di Firenze, ad esempio, di tre forni attivi fino al 2012 oggi ne è rimasto attivo solamente uno, quello di Greve in Chianti, portando a due i cementifici attivi in Toscana.

Questo cementificio ha sempre rappresentato, nei suoi cento anni di attività, una risorsa industriale essenziale per tutta l’area del Chianti, unitamente all’attività industriale della famosa pavimentazione del cotto fiorentino. Si tratta di attività industriali che sono state valutate, sia dal sindacato che dalle amministrazioni locali, fondamentali per lo sviluppo economico equilibrato e sostenibile dell’area. Industria che si affianca alle ben più famose ed economicamente rilevanti attività dell’agricoltura e del turismo.

Negli anni antecedenti alla crisi, il cementificio di Greve ha avuto una serie importanti di investimenti tecnologici che lo hanno reso tra i più efficienti e moderni a livello nazionale. Queste premesse non hanno però garantito alla fabbrica di affrontare gli ultimi anni di crisi senza lunghe fasi di fermo, conseguenti lunghi periodi di ricorso ad ammortizzatori sociali, e riduzione del personale.

Alle difficoltà del mercato locale si è aggiunta anche la grave crisi del Gruppo Sacci, che è entrato in procedura concorsuale (concordato). Circa un anno fa il Gruppo Sacci è stato acquisito dal Gruppo Cementir, una operazione ben valutata dal mercato finanziario e determinante per il futuro assetto e riposizionamento dei gruppi cementieri italiani. Questa acquisizione ha garantito in breve tempo un inizio di aumento della produzione dello stabilimento. Ma, contrariamente alle assicurazioni occupazionali date in fase di acquisizione, allo stesso tempo è stata avviata una procedura di mobilità per 260 lavoratori a livello nazionale, di cui trentadue a livello locale.

Diversamente da quanto avvenuto finora praticamente con tutti i gruppi del cemento, dove la gestione delle durissime fasi di ristrutturazione è avvenuta con intese e accordi sindacali, in questo caso la volontà del gruppo Cementir Sacci, nonostante diversi incontri avuti, anche con la mediazione del governo, è di procedere con i licenziamenti, senza aspettare piani di investimento e valutazione dei risultati. Con l’esclusione dell’utilizzo di ammortizzatori sociali, si è arrivati al mancato accordo sindacale a livello nazionale, alla fine 2016.

Tutta la fase di confronto prescritta dalla legge, e quella successiva al mancato accordo, è stata sostenuta da una dura lotta dei lavoratori con scioperi e manifestazioni in tutto il territorio nazionale. A Greve i lavoratori sono arrivati nel mese di febbraio 2017 fino a quattro giorni consecutivi di sciopero, sette giorni complessivamente dall’inizio della procedura.

Anche l’intervento dei sindaci locali, della Regione Toscana e del Prefetto non hanno indotto il Gruppo a riprendere un confronto, ritirando i licenziamenti. Si tratta di un comportamento in pieno “stile jobs act”: riduzione di fatto dei diritti e delle tutele per chi ha accettato di continuare a lavorare nelle cosiddette esternalizzazioni; filosofia aziendale che sposa il pensiero, promosso dai governi di questi ultimi anni, che il problema della crisi sono i lavoratori e i loro diritti. Niente di più falso ed evidente come in questo caso.

Questo clima, direi anche culturale, si è dimostrato determinante anche nella condizione di debolezza degli amministratori locali, pur molto motivati, ma di fatto quanto mai deboli, in quanto non in grado di determinare un cambiamento di rotta da parte dell’azienda. Il Gruppo Cementir Sacci, insomma, cerca di incassare un altro risultato: dare un forte segno di direzione dall’alto senza mediazione vera con i lavoratori; dare un forte segnale alle amministrazioni locali che il bene comune lavoro le appartiene e ne dispone.

Anche in questo caso si dimostrerà una impostazione, oltre che di basso profilo, profondamente errata e che rischia di minare le prospettive di lavoro a medio e lungo termine, oltre che di aumentare il rischio sicurezza per i lavoratori. Per questo continueremo la nostra lotta con i lavoratori dentro e fuori il posto di lavoro, per “liberare il lavoro” e riportarlo al centro con diritti e tutele, come proposto nella Carta dei diritti fondamentali del lavoro promossa dalla Cgil.

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