Il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma avviene in una delle fasi più delicate dell’esistenza dell’Unione europea, chiamata ad affrontare una crisi multipla. Si pensi agli elevati livelli di disoccupazione giovanile in alcuni paesi, alla stagnazione economica, alla Brexit, ai ricorrenti dubbi sulla tenuta dell’euro, alle crescenti ineguaglianze, all’emergenza dei rifugiati, alla gestione dei flussi migratori, all’emergenza sicurezza, alla crescente disaffezione nei confronti dell’Ue e alla relativa ondata nazionalista e populista.

Una crisi multipla, innescata dalla crisi finanziaria ed economica avviata nel 2008, che ha contribuito ad acuire le contraddizioni esistenti all’interno dell’Ue. Una crisi che, mal gestita all’interno dell’Unione dalla Commissione, dal Consiglio e dai governi degli stati membri, ha contribuito ad amplificare e prolungarne gli effetti negativi. Una crisi che si traduce essenzialmente in una crisi di solidarietà all’interno dell’Unione stessa.

Non è un caso che il libro bianco sul futuro dell’Europa, presentato da Juncker il primo marzo scorso, si apra richiamando una frase di uno dei padri fondatori: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costituita tutta insieme. Essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto” (Robert Schuman, 1950). Da tempo ormai l’Ue ha smesso di essere ciò che l’aveva contraddistinta: un campione di coesione sociale. Lo dimostrano i divari territoriali economici e sociali che vanno sempre più ampliandosi da nord a sud e da est a ovest. Proprio sulla affermazione di una reale solidarietà europea occorre ripartire, ponendo come priorità la costruzione di un pilastro europeo dei diritti sociali che ponga al centro il lavoro.

Questo significa predisporre le condizioni migliori per affrontare i mutamenti in atto nel mondo del lavoro. Sia i cambiamenti dettati dalla crisi, sia quelli di natura strutturale derivanti dalle innovazioni nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Occorre rilanciare con forza – a livello europeo – un’efficiente ed efficace politica di formazione e di ri-qualificazione in grado di coinvolgere tutti i lavoratori, per tutto l’arco della loro vita professionale, per implementare e valorizzare l’inestimabile ricchezza data dalle loro capacità professionali.

Occorre poi assicurare un sistema di welfare in grado di garantire una reale protezione ai cittadini europei da quei rischi che non possono essere sostenuti individualmente. Un welfare non più inteso come un costo per la collettività, bensì come una risorsa in grado di implementare le condizioni economiche e sociali dei cittadini europei.
In questo contesto dovrebbe inserirsi un vasto programma europeo di garanzia contro la disoccupazione. Se è questo uno dei principali problemi che colpisce l’Unione, è importante che la stessa Ue sia in grado di fornire risposte efficaci per la sua soluzione contribuendo “a togliere l’acqua nella quale nuota oggi il populismo in Europa”. Si tratterebbe di armonizzare i sistemi nazionali, concentrando le risorse in modo da costituire un sistema comune di garanzia per la disoccupazione. Così, oltre a ridurre le disparità regionali e gli shock asimmetrici che hanno contribuito alla crisi dell’euro, si mostrerebbe ai cittadini il “volto umano” dell’Europa, come sostenuto da Giles Merritt (Friends of Europe).

Un ulteriore campo di intervento dovrebbe riguardare un grande programma europeo di investimenti pubblici infrastrutturali materiali e immateriali che – con l’applicazione della “golden rule” – sia fuori da qualunque conteggio di deficit di bilancio. Un primo filone dovrebbe essere indirizzato a garantire la manutenzione, il ripristino e l’ammodernamento del patrimonio naturale ed architettonico, nonché le reti di trasporto (ferroviario, stradale e marittimo). L’altro filone dovrebbe riguardare gli investimenti “immateriali” legati allo sviluppo delle reti delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Entrambi i filoni, in collegamento con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile dell’agenda 2030, inserendosi in un reale quadro per una politica industriale europea, contribuirebbero al rilancio della competitività in Europa. Ma un’iniziativa di questo genere richiede di rivedere sostanzialmente il fiscal compact e le strozzature che comporta nei bilanci degli stati e degli asset produttivi di uno stato membro.

La crisi dell’Europa è anche crisi della visione strategica del futuro che essa si vuole dare. Non bastano certamente i cinque scenari indicati nel libro bianco di Juncker. Occorre che l’Europa torni ad esercitare quel ruolo guida – che ha espresso per tutta la seconda metà del secolo scorso - forte di un modello di coesione economica sociale e territoriale che oggi ha purtroppo perso.

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