Nel mondo cresce il finanziamento all’industria delle armi nucleari, nonostante qualche ripensamento. 

Un nuovo rapporto pubblicato dall’associazione olandese Paxe da Ican (International campaign to abolish nuclear weapons), la campagna mondiale per il disarmo nucleare premiata lo scorso ottobre con il premio Nobel per la pace, denuncia come, tra il 2014 e il 2017, 329 istituzioni finanziarie abbiano investito 535 miliardi di dollari in venti gruppi produttori di armi nucleari. Il rapporto “Don’t bank on the bomb” (“Non investire nella bomba”) contiene le risposte a chi si chiede chi tragga beneficio dalle minacce di guerra nucleare rilanciate da Donald Trump, evidenziando come l’ammontare complessivo di capitali investiti nel settore sia cresciuto di 81 miliardi di dollari, anche se il numero di investitori è calato da 369 a 329.

Tutti i primi dieci investitori hanno sede negli Stati uniti e, da soli, hanno fornito oltre 253 miliardi di dollari ai produttori di armi nucleari identificati nel rapporto, cioè quasi la metà dell’investimento totale. Le prime tre posizioni sono occupate da Clackrock, Capital Group e Vanguard che, considerate nel loro insieme, hanno investito oltre 110 miliardi di dollari. In Europa, le istituzioni finanziarie maggiormente coinvolte sono Bnp Paribas (Francia) e Barclays (Regno Unito) con investimenti combinati superiori a 24 miliardi di dollari.

Si tratta di investitori che hanno sostenuto società produttrici di armi nucleari, tra il gennaio 2014 e l’ottobre 2017, con emissioni di azioni e obbligazioni, azioni o obbligazioni possedute o gestite, o prestiti. Il rapporto, nella sua analisi, ha preso in considerazione tutti i prestiti in essere e le linee di credito durante il periodo di ricerca, non solo i nuovi prestiti emessi.

In questo quadro, ci sono anche istituzioni finanziarie che hanno adottato, applicato e pubblicato un codice di condotta che previene qualsiasi coinvolgimento finanziario in aziende produttrici di armi nucleari. Dopo l’adozione del Trattato sul divieto nucleare, due dei cinque maggiori fondi pensione al mondo hanno annunciato cambiamenti nelle loro relazioni con i produttori di armi nucleari. Si tratta di “Abp” (quinto al mondo per dimensioni) che ha deliberato di escludere entro il prossimo anno l’accesso di questi produttori al proprio pacchetto di attività da 500 miliardi di dollari. Anche il fondo pensionistico governativo norvegese (il secondo più grande a livello mondiale) ha annunciato le prime modifiche all’applicazione della sua politica sulle armi nucleari dal 2013.

Nel rapporto infatti si riscontra un massiccio aumento degli investimenti nella distruzione di massa, ma vengono anche individuate 63 istituzioni finanziarie con politiche che limitano o proibiscono gli investimenti in qualsiasi tipo di produttore di armi nucleari. Per l’Italia, sono Banca Etica, Intesa-Sanpaolo e Unicredit (che rimangono, però, nella lista negativa per investimenti negli anni precedenti).

In Italia c’è molta strada da fare. Dal rapporto si scopre quali sono gli istituti finanziari e di credito che anche in Italia continuano a sovvenzionare i produttori di bombe e armi nucleari: Anima, Monte dei paschi di Siena, Banca popolare di Sondrio, Banca popolare dell’Emilia Romagna, Banco di Sardegna, Banco Popolare, Carige, Gruppo Bpm, Intesa San Paolo, Ubi Banca, Unicredit.

La pressione sulle istituzioni finanziarie è uno degli strumenti a disposizione delle mobilitazioni della società civile che chiedono un mondo finalmente libero dalle armi nucleari. La richiesta principale delle campagne italiane è quella che anche il nostro paese inizi il percorso di adesione e ratifica al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Per questo la Rete italiana per il disarmo e Senzatomica hanno lanciato la mobilitazione ‘Italia, ripensaci’, che si rivolge al neoeletto Parlamento perché assuma le decisioni del caso.


 

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