Il progetto di salario minimo legale del M5S: un dono insidioso - di Salvo Leonardi

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Il recente ddl del M5S per un salario minimo legale porta al centro del dibattito italiano un tema già molto presente a livello internazionale. Le cause risiedono nell’aumento dei working poors e del lavoro precario, e nel diffuso indebolimento delle rappresentanze che negoziano il salario.

Per i sindacati, la lotta per un salario equo costituisce una ragion d’essere, per rendere il lavoro condizione effettiva di cittadinanza ed evitare la competizione distruttiva fra lavoratori. Lo strumento fondamentale è consistito nel fissare innanzitutto i livelli minimi della retribuzione, tramite contrattazione multi-datoriale oppure per legge. In Italia e in pochi altri paesi europei è prevalsa storicamente, e permane, la scelta in favore del metodo contrattuale.

Ora da varie parti viene rilevata l’insufficienza del solo metodo contrattuale, e si propone di adottare un salario minimo legale, come nella maggior parte dei paesi europei. Di tali proposte, quella presentata dal M5S, è di gran lunga la più interessante, per quanto non immune da alcuni dubbi e qualche rischio. Il ddl A.S 658/2018 mira ad inverare i principi costituzionali della giusta retribuzione (ex articolo 36), con riguardo a lavoratori subordinati e ai collaboratori etero-diretti, oggi con retribuzioni particolarmente basse.

A questo scopo, il trattamento economico complessivo non potrà essere inferiore a quello previsto dal Ccnl siglato dalle associazioni comparativamente più rappresentative, e comunque non inferiore a 9 euro all’ora, indicizzati, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. In caso di più Ccnl applicabili, o che non ve ne sia alcuno, si applicherà quello comparativamente più rappresentativo, in base al Testo unico del 2014.

L’articolato presenta dunque elementi apprezzabili, per finalità generali e talune soluzioni, nel contrasto ai contratti pirata e al dumping salariale. E’ un progetto non ostile ai confederali, a dispetto del consueto livore antisindacale della propaganda M5S. Agire sull’articolo 39 è stato ritenuto troppo complicato, e si è ripiegato sull’articolo 36, con un erga omnes solo salariale, non sostitutivo della contrattazione. Una sfida su cui le parti sociali e i tecnici si stanno interrogando, al fine di vagliare potenzialità e insidie, eventualmente in grado di produrre effetti non voluti.

La controversia interpretativa riguarda alcuni aspetti. A partire dalla platea: a chi si applicherà la legge? Sappiano che i nostri Ccnl coprono la quasi totalità del lavoro dipendente. E che per soci di cooperative, lavoratori in appalti pubblici, distaccati e percettori di voucher, si estendono già per legge i minimi del Ccnl più rappresentativi. Potrebbe interessare i lavoretti della gig economy, ma non prima di averne qualificato per legge la subordinazione, essendo altrimenti impraticabile un compenso su base oraria.

Poi i 9 euro orari. E’ tanto, è poco? Cosa ricomprende? Può preludere a una fuga dai Ccnl? Può apparire tanto se lo si rapporta al solo dato nominale orario, spesso sconosciuto alle stesse categorie (che ragionano su base mensile), e nella cornice europea, dove solo paesi molto più ricchi e omogenei di noi superano quella soglia. E’ poco se, come si desume, esclude le quote rateizzate di 13/a e Tfr, e le altre voci che compongono il trattamento economico complessivo. Ci chiediamo se, oltre a stabilire una meritoria inderogabilità al ribasso, quella soglia – più bassa della maggior parte dei Ccnl – possa indurre i datori ad optarvi, uscendo dai contratti. Un rischio che dovrebbe venire scongiurato dalla clausola di ultrattività (articolo 4.2), anche in caso di scadenza o disdetta.

Ancora, c’è il tema della rappresentatività comparativamente maggiore: questo meritorio richiamo, allo stato attuale, è forse il principale vulnus dell’intero impianto. Il primo riferimento (articolo 2) va ad una legge del 1986 sul Cnel, che ha però selezionato ben 48 associazioni, ed è dunque insufficientemente selettiva. Poi si cita il Tu del 2014, che nessuno è riuscito finora a mettere in atto, neppure chi lo siglò. Riguarda le realtà di Confindustria, le meno insidiate dal dumping, laddove associazioni datoriali ben più a rischio (commercio, pmi, artigianato) avevano adottato modifiche sulla ponderazione della rappresentatività: più associativa che elettiva, vista l’assenza di Rsu. Numero e perimetro dei Ccnl, insieme a una legge che recepisca gli accordi sulla rappresentanza, ci paiono un passaggio propedeutico necessario.

Oggi in Italia, ma non solo, esiste una grave questione salariale. Le cause sono molteplici, ma non porrei in cima la strumentazione per la definizione dei minimi. Pesano immensamente di più i dualismi territoriali, la precarietà, la finta autonomia, i part-time ridottissimi, la mancanza di ispezioni, il sistema di calcolo dei rinnovi nazionali, il carico fiscale. Le scelte della Cgil – il Piano per il lavoro, la Carta universale dei diritti, la contrattazione inclusiva - vanno nella giusta direzione.

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