La Cina è vicina, la trasparenza no - di Monica Di Sisto

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Arance spaziali o a pedali? Anche le operazioni più serie, a volte, in Italia, prendono la piega dell’operetta. E quando il governo ha blindato Roma per accogliere il presidente cinese Xi Jinping per approfondire nella massima ufficialità le relazioni fra la Cina e il nostro paese, la scena è stata subito catturata dalle arance siciliane e dalle polemiche se fosse più conveniente spedirle oltre la Grande Muraglia in aereo – operazione che ne triplica il costo finale – oppure in nave, come è già possibile dal 2016.

Nella visita di Xi Jinping a Roma, oltre al Citrus X Sinensis, nome scientifico del gustoso frutto che tradisce la sua origine cinese, c’è di più: ci sono 29 documenti, fra i quali una cornice politica che contiene dieci premesse per contratti commerciali, e 19 intese istituzionali da (almeno) 7 miliardi di euro che proiettano l’Italia all’interno di quella “Belt and road initiative” (Bri) cinese dove, al momento, a parte i governi (sulla carta) sovranisti di Austria e Italia, non troviamo altri grandi paesi europei.

Non può non far riflettere che la Commissione europea abbia fatto la voce grossa con l’Italia e non con la Germania che, come ha ricordato anche l’ex ambasciatore italiano a Pechino, nel 2017 ha totalizzato 180 miliardi di euro di commercio bilaterale con la Cina, la metà di tutta l’Unione europea, seguita dall’Olanda con 96 miliardi, dal Regno Unito con 77, dalla Francia con 50, mentre l’interscambio Cina-Italia è di soli 43-44 miliardi.

La Commissione, peraltro, sorvola da anni sul disavanzo commerciale europeo con la Cina di oltre 175 miliardi, di cui 20 miliardi italiani. L’ex premier Renzi, peraltro, nel 2014 sottoscrisse venti accordi con il premier cinese Li Keqiang per oltre 8 miliardi di euro nell’ambito dei quali Pechino, nel tripudio generale, acquistò per poco più di due miliardi di euro ben il 35% di Cdp Reti, la società di Cassa depositi e prestiti che si occupa delle infrastrutture energetiche italiane, incluse Snam e Terna.

Nel nuovo memorandum-cornice sottoscritto da Cina e Italia si dedica un capitolo allo “sviluppo verde”. Le due parti dicono di sostenere “pienamente l’obiettivo di sviluppare la connettività seguendo un approccio sostenibile e rispettoso dell’ambiente, emissione di carbonio e l’economia circolare”, e si impegnano a collaborare per la promozione attiva dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e dell’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, con la partecipazione del ministero dell’ambiente.

Però, né con Renzi né con Di-Maio e Salvini, nessuno dei contratti commerciali è stato accompagnato da una valutazione di impatto economica, sociale e ambientale trasparente e verificabile. Nessuno sa chi li abbia sottoposti, assunti, e perché, a parte quanto si può leggere in comunicati stampa più celebrativi che analitici. Non c’è alcun meccanismo stabile e trasparente di esame di queste iniziative, alla luce dei pur ambiziosi obiettivi ambientali. Della task force sui trattati commerciali istituita presso il Mise, che avrebbe dovuto permettere alle organizzazioni ambientaliste, della società civile e dei consumatori di valutare l’effetto incrociato di tutti i trattati che l’Italia si trova a appoggiare nel Consiglio europeo, non c’è traccia, e dalle ultime convocazioni le associazioni – dalla Campagna Stop Ttip/Ceta, a Greenpeace, a Slow food - erano state escluse senza alcuna motivata spiegazione, con buona pace delle ottime arance spedite in terra cinese.

La Bri cinese, con le sue cinque priorità di cooperazione - Policy coordination, Facilities’ connectivity, Unimpeded trade, Financial integration, People-to-people linkages – è un’operazione strategica pensata e condotta da un capitalismo di Stato con prospettive molto ben ponderate di medio-lungo periodo, a confronto del quale un’Italia che non possiede da oltre vent’anni alcun piano di sviluppo nazionale oltre alle previsioni triennali del Def – sempre disattese – mette un po’ i brividi.

Alcune stime valutano che la Bri, operazione che coinvolge più di 80 paesi, tra il 60% e i due terzi della popolazione mondiale, valga tra il 30% e il 50% del Pil mondiale mobilizzati da almeno 1.700 progetti. Dal 2013 al 2018, al di là degli annunci, si è riusciti a mappare 1.100 progetti per circa 750 miliardi di dollari, di cui 332 miliardi investiti in infrastrutture di trasporto e logistica, e 266 miliardi in infrastrutture energetiche.

Come tutto questo possa impattare su un’economia complessa e in difficoltà come la nostra, sui suoi livelli occupazionali o sull’ambiente, non è dato saperlo. E sembra che nessuno lo abbia voluto approfondire, senza che questo ingenerasse preoccupazioni, a Roma come a Bruxelles, se non ideologiche. Alle cronache restano, tristemente, arance, propaganda, e un paese sempre più ostaggio del tifo da stadio.

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