Una svolta egualitaria e verde per salvare il pianeta - di Monica Di Sisto

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A 20 anni da Seattle: sappiamo cosa fare, ma manca la volontà politica. 

“Un vero Green new deal può partire solo con degli Stati che reclamano il loro spazio politico, dal quale sono stati progressivamente esautorati negli ultimi 30-40 anni. Questa è la condizione di base. Il finanziamento può essere fatto in tantissimi modi, ma ci vogliono investimenti importanti. Si tende a pensare che non abbiamo i soldi, argomentazione che lascia perplessi quando nello stesso periodo si spendono 23 miliardi di dollari per espandere i bilanci delle banche centrali, si assiste a 700 miliardi di dollari in trasferimenti dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati per elusione fiscale e sussidi indebiti, migliaia di miliardi di dollari in combustibili fossili”. Lo ha detto l’economista dell’agenzia Onu che si occupa di Commercio e sviluppo (Unctad), Jeronim Capaldo, intervenendo con una lezione su quello che significa scommettere davvero su un accordo “verde” socialmente sostenibile, in Italia e a livello globale, all’iniziativa “Seattle+20: Green New Deal and/for Community-led Local Development”, organizzato a Roma dall’associazione Fairwatch insieme all’Associazione delle Ong italiane, la Fondazione Di Vittorio e il Kyoto Club.

Il 30 novembre di vent’anni fa a Seattle la globalizzazione si scoprì nuda: oltre 50mila metalmeccanici con i posti di lavoro in caduta libera per le prime delocalizzazioni, insieme agli studenti loro figli, agli ambientalisti, a molti attivisti dei paesi ri-colonizzati dalle filiere frammentate, e poi indigeni e femministe, bloccavano il vertice dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Affermavano che “questo mondo non è in vendita”, e che liberalizzare il commercio da regole e indirizzi politici sarebbe stato un errore. Pensavano che “globalizzando la lotta” si sarebbero sprigionati gli anticorpi necessari a resistere a quell’attacco, sponsorizzato da quelle corporation che sarebbero state le uniche a guadagnarci.

Dopo vent’anni infatti la Fao ci dice che due miliardi di persone non sanno se mangeranno tutti i giorni, e proprio l’Unctad ci spiega che solo l’1% delle imprese più grandi capitalizza in media il 57% delle esportazioni di ciascun paese. “Il commercio internazionale è in frenata da molti anni – ha spiegato Capaldo illustrando i dati degli ultimi Report dell’agenzia Onu su investimenti e scambi – la domanda globale è debole e il livello degli investimenti non indica migliori prospettive. Il sistema di governo multilaterale è debilitato: non riesce a gestire conflitti commerciali, valutari, tecnologici, o sul debito. L’iperglobalizzazione ha aggravato il debito globale – ha aggiunto – che è aumentato di 14 volte dal 1980, tanto che si parla sempre più insistentemente di una possibile crisi globale tra il 2020 e il 2021. E superare la soglia dei 2 gradi centigradi della temperatura globale ci costerà tra 70 e 550mila miliardi di dollari tra danni e interventi di aggiustamento, in un quadro di redditi sempre più bassi e con una crescente difficoltà per le persone di sostenere il proprio futuro”.

L’Italia, secondo lo studioso, “non è ancora sulla buona strada ma ci sono molte ragioni di ottimismo: la prima è che sappiamo quali sono le cose che andrebbero fatte, ci manca la volontà politica per poterle fare”. Gli interventi più urgenti, secondo Capaldo, sono politiche per la transizione verde, ma non solo: “Servono serie politiche dei redditi, fiscali e tributarie, senza le quali il mercato non può ripartire e la bolla del debito non può che esplodere. Vanno rivisti gli accordi commerciali, quelli degli investimenti, controllati i movimenti di capitale per concentrare gli sforzi e le risorse sulla ridistribuzione. La condizione per farlo è che gli Stati si riapproprino dello spazio economico: per generare sviluppo, ribilanciare la distribuzione del reddito e stabilire sicurezza economica”.

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