Giornalismo e post-verità - di Gian Marco Martignoni

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Giuliana Sgrena, “Manifesto per la verità”, pagine 259, euro 15, Il Saggiatore. 

Ormai in qualsiasi sala d’aspetto, in metropolitana o nelle carrozze ferroviarie, per non parlare delle riunioni sindacali, si conta sul palmo della mano chi ancora sente il bisogno di leggere un quotidiano. Il Rapporto sulla situazione sociale del paese 2018, a cura del Censis, evidenzia come la maggioranza degli italiani si documenti prevalentemente su Internet (il 46,1%), mentre, stante il crollo della vendita dei quotidiani, solo il 37,4% è rimasto affezionato alla loro lettura. Al punto che ‘Il Corriere della Sera’ e ‘La Repubblica’ hanno dimezzato in un decennio le loro vendite, che sono scese nel primo caso a poco meno di 221mila copie vendute quotidianamente, e nel secondo addirittura a poco più di 175mila, pur se la domenica per un euro di sovrapprezzo è allegato un glorioso settimanale come ‘L’Espresso’.

Sono dati preoccupanti, che incidono sugli orientamenti dell’opinione pubblica e quindi sullo scarto che interviene nella popolazione tra la percezione e la realtà effettiva dei fatti, come poi rilevano le statistiche a livello internazionale, che ci collocano in posizioni invereconde.

Su queste tematiche, e più in generale sullo scadimento della professionalità dei giornalisti, “diventati passivi compilatori di materiali non verificati”, è illuminante il capitolo conclusivo dell’ultimo libro di Giuliana Sgrena “Manifesto per la verità”. Ma la Sgrena, che è stata inviata del quotidiano ‘Il manifesto’ in molteplici teatri di guerra, in quanto fedele alla missione del giornalismo “unilateral”, allarga il suo campo d’inchiesta con una serie di approfondimenti oltre i confini nazionali, nella consapevolezza che nell’epoca della post-verità si è pervenuti ad una manipolazione del consenso sempre più sofisticata e perversa.

D’altronde a Falluja in Iraq - dove documentò insieme a ‘RaiNews24’ l’utilizzo delle armi al fosforo bianco - e poi all’hotel Palestine a Baghdad, ha potuto verificare l’organizzazione di una campagna di disinformazione di massa, attraverso l’individuazione di un nemico, il dittatore Saddam Hussein, da dare in pasto all’opinione pubblica mondiale. Anche attraverso il rapporto “cameratesco” instaurato dai giornalisti “embedded” con i battaglioni militari delle loro nazioni di provenienza, relativamente all’addestramento sui compiti da svolgere “diligentemente” sul campo.

Allo stesso odo nella vicenda libica l’uscita di scena di Gheddafi è stata il frutto di una montatura televisiva avvenuta negli studi dell’emittente ‘Al Jazeera’ a Doha. Così come in Siria, quando l’Opac ha smentito l’uso delle armi chimiche da parte dell’esercito siriano, la mancata defenestrazione del presidente Bashir Assad si è tramutata inevitabilmente nella distruzione, per palesi interessi geopolitici imperialistici, di quel paese e nella tragedia biblica di un intero popolo. Ora invece la guerra informativa, in particolare dopo l’istituzione del trattato di Schengen, ha per obiettivo i migranti, contro i quali sono stati eretti sia “muri fisici, ben tredici in Europa, che muri mentali”. Proliferano i dati falsi sull’immigrazione e si moltiplicano gli stereotipi anche via social nei confronti degli stranieri, con gravi responsabilità da parte del mondo dell’informazione.

Infine, a partire dal caso Asia Argento, vittima della gogna mediatica per aver denunciato le molestie subite da Harvey Weinstein, i primi tre dolorosi e scioccanti capitoli affrontano la cultura dominante dello stupro, con una accurata denuncia su come i femminicidi vengono raccontati nel mondo e soprattutto nel nostro paese, dove l’ondata reazionaria è guidata dal fronte antiabortista. Non casualmente l’irruzione sulla scena mondiale del movimento femminile ‘MeToo’ ha tra i suoi principali obiettivi quell’affermazione della verità che dovrebbe contraddistinguere un giornalismo di qualità.

 

Un giornalismo che, se vuole sopravvivere dignitosamente, deve, riprendendo le parole di un lungimirante George Orwell, avere “il diritto di dire alla gente ciò che non vuole ascoltare”.

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