Nel riprogettare il Paese non si dimentichi l’emigrazione italiana - di Rodolfo Ricci

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L’uscita dalle crisi succedutesi nella storia italiana negli ultimi 150 anni ha contemplato l’emigrazione come una permanente soluzione. È avvenuto a fine ‘800 e inizio ‘900, poi nel dopoguerra, quando si invitarono le masse inoccupate a “imparare una lingua e andare all’estero”.

A ridosso del presente, la cosa si è ripetuta, otto anni fa, con l’invito di Mario Monti “a prepararsi ad una nuova mobilità nazionale ed internazionale”. Cosa che è puntualmente avvenuta, portando all’estero, nell’arco di dieci anni, quasi due milioni di persone e un milione da sud a nord.

Di questo ultimo esodo si è parlato a sproposito, rappresentando la brillante novità dei “cervelli in fuga”, e coniando termini sostitutivi dell’antiquata “emigrazione”, con “libera mobilità degli expat”. Ma sempre di emigrazione si è trattato, a rinverdire l’antica tradizione italica a non valorizzare la sua risorsa fondamentale: il lavoro e l’intelligenza delle persone, delle nuove generazioni in particolare.

Carlo Levi, in un discorso al Senato di 50 anni fa, parlava di questione strutturale legata all’arretratezza del nostro capitalismo, e di classi dirigenti che, piuttosto che modificare in senso progressivo la struttura di classe, preferivano inviare all’estero milioni di persone, senza calcolarne la perdita in “patrimonio umano” che, solo nell’ultimo decennio, è ammontata a decine di miliardi di euro all’anno, con annessa flessione del Pil, accelerazione del decremento demografico, e ovvi vantaggi per i paesi di arrivo (con i quali dovremmo competere). Ora, con l’ennesima crisi da Covid-19, si prova a ripensare tutto. Dal suo esito si ridisegna il Paese.

È da auspicare che stavolta venga messa da parte l’obsoleta soluzione di lasciar partire la gente, come le decine di migliaia di medici e infermieri che abbiamo lasciato emigrare verso Inghilterra o Germania negli ultimi 15 anni; per il ‘new green deal’ abbiamo bisogno dei nostri ricercatori; le start-up e tutto il ventaglio di nuova imprenditoria è bene che si sviluppino e creino lavoro qui; non ha alcun senso che laureati e diplomati debbano sperimentare precariato e lavoro nero oltre confine, contribuendo tra l’altro al dumping sul costo del lavoro su cui è costruita la ossessiva dinamica competitiva tra sistemi-paese. Per quanto riguarda l’Europa, è da ricordare che “la libera circolazione” è tale se non è forzata e unidirezionale, altrimenti è una frottola.

L’invito è di valutare la questione emigratoria nei passaggi del “rilancio” e di riprogrammazione. La crisi da coronavirus ha costretto a tornare in Italia o nelle regioni di origine decine di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro. Alcune stime parlano di oltre 100mila nei tre mesi di lockdown; soltanto in Calabria pare siano tornati almeno in 20mila. Al primo gennaio 2019, secondo l’Istat, la popolazione residente in Calabria era di 1,95 milioni; i calabresi all’estero erano 413mila. In Sicilia, su 5 milioni di residenti, c’erano 768mila siciliani all’estero.

Dal 2008 al 2017 si sono trasferiti nel centro-nord quasi un milione di persone, con un saldo negativo di -430mila persone. Verso l’estero sono partite 750mila persone, con un saldo netto di circa -417 mila persone. Secondo diversi istituti di ricerca invece il numero degli espatri è 2,5 o 3 volte il dato Istat. Il saldo negativo supera il milione.

Abbiamo già dato! È opportuno che né i pochi rientrati, né altri siano costretti a ripartire, ma che trovino occasioni di lavoro immediato e dignitoso nei luoghi di origine. La questione riguarda governo e Regioni, che dovrebbero assumere la questione emigrazione come una priorità. È da auspicare che gli stessi emigrati rientrati si organizzino a rappresentare i loro bisogni e diritti all’interno dei movimenti che chiedono un cambio di passo delle politiche sociali e di sviluppo locale.

C’è poi il versante di coloro che all’estero sono rimasti: 6 milioni. Solo quindici anni fa erano 3 milioni. Si tratta di oltre il 10% della nostra popolazione. Una regione fuori confine, seconda solo alla Lombardia. Coinvolgerli nella riprogettazione del paese è un’occasione di riconoscimento di diritti e di potenzialità che non dovrebbe essere lasciata cadere. Il sud, le aree interne in via di spopolamento, le sorti dei piccoli borghi, il turismo, l’export di produzioni tipiche, sono altrettanti ambiti che ne potrebbero godere. Le giovani generazioni dell’emigrazione possono diventare un attore del rilancio. Si potrebbe superare una miopia che ha caratterizzato oltre un secolo di storia nazionale.

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