Multiservizi: “eroi” senza diritti… - di Matteo Baffa

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Ricorderete sicuramente la retorica accomodante durante la prima ondata della pandemia: una strategia comunicativa che mirava a diffondere ottimismo e cercava di dare riconoscimento a quelle donne e quegli uomini che in quei terribili mesi erano in prima linea negli ospedali a combattere contro il virus e contro il tempo.

I riflettori erano ovviamente puntati su medici e infermieri, ma in un secondo momento ci si è accorti dell’esistenza di altre categorie di lavoratori schierati “al fronte”, donne e uomini senza i quali gli ospedali non resterebbero nemmeno aperti: il personale delle pulizie e della sanificazione. Lavoratori essenziali ma “invisibili”, imprescindibili ma usati ovunque come merce di scambio tra ente committente e appaltatori privati; trattati come risorse su cui si possono ridurre gli “sprechi” e accumulare profitti.

Sono circa 600mila in tutta Italia, dal loro lavoro dipende tutto il Paese, oggi più che mai. Garantiscono igiene e sanificazione in tutti i servizi pubblici, luoghi di lavoro e di aggregazione, dagli uffici agli ospedali, dalle scuole e le università ai supermercati, dai mezzi di trasporto ai teatri e ai cinema.

Non parliamo solo di addetti alle pulizie: ci sono anche diverse migliaia di figure professionali con ruoli amministrativi in grandi appalti pubblici, soprattutto ospedalieri; impiegati di sportello o call center dei centri di prenotazione (come il sottoscritto), segretari di reparto o ambulatoriali e così via.

C’è un divario intollerabile tra l’etichetta ufficiale di “eroi” e le reali condizioni in cui tutti noi lavoriamo quotidianamente. Il nostro contratto di riferimento è il multiservizi, un contratto “povero”, scaduto da oltre sette anni, le cui trattative si ritrovano impantanate nelle vergognose resistenze delle associazioni imprenditoriali (Confindustria e Lega delle Cooperative), che mirano al rinnovo “a costo zero”, cioè senza alcun aumento retributivo reale, e ad intaccare il diritto alla malattia retribuita.

Il 21 ottobre siamo scesi nelle strade, davanti alle sedi delle associazioni imprenditoriali, agli ospedali o altri luoghi simbolo, per chiedere sì il rinnovo del Ccnl, ma non solo. Siamo lavoratori essenziali ma la nostra retribuzione è inadeguata a vivere dignitosamente: veniamo pagati poco più di 7 euro lordi l’ora, e la stragrande maggioranza dei contratti individuali sono costituiti da part-time involontari. Siamo essenziali ma all’inizio della pandemia abbiamo dovuto assistere allo scaricabarile tra enti committenti e appaltatori sulla responsabilità della nostra salute nei luoghi di lavoro: mascherine, gel e guanti sono arrivati in pericoloso ritardo, proprio perché nessuno dei due soggetti cui sottostiamo voleva farsi carico delle spese necessarie per farci lavorare in sicurezza.

Siamo essenziali ma abbiamo dovuto lottare perché anche agli “appaltati” ospedalieri venisse garantito uno screening Covid-19 periodico al pari dei dipendenti diretti. Siamo essenziali ma la nostra vita, la nostra stabilità lavorativa, i nostri progetti sono costantemente in bilico, legati alla prossima gara d’appalto al ribasso, al prossimo capitolato striminzito che potrebbe comportare una revisione dei livelli di inquadramento, una riduzione del monte ore o, peggio, il licenziamento.

Siamo essenziali... ma non riusciamo nemmeno a gridarlo forte come vorremmo: la legge 146 sulla limitazione del diritto di sciopero vincola una gran parte di noi alla precettazione, in quanto appartenenti a categorie che devono garantire un presidio minimo. A ciò si deve aggiungere anche la parcellizzazione dei lavoratori, frammentati e isolati in arcipelaghi di sedi diverse, spesso subappaltati o differenziati tra più aziende che si spartiscono un singolo ghiotto appalto (con le differenze di trattamento che ne possono conseguire, nonché la disomogeneità di rappresentanza sindacale).

Il 21 ottobre abbiamo manifestato per la restituzione della nostra dignità e il riconoscimento concreto del nostro lavoro, per la stabilità e la sicurezza. Siamo però ben consapevoli che non può e non deve bastare il rinnovo del contratto per soddisfare queste nostre richieste, quale che sia l’esito delle trattative.

Servono un’inversione di tendenza, una nuova prospettiva e un nuovo orizzonte. Sono necessari interventi legislativi che possano rendere la clausola sociale nel cambio d’appalto solida ed estensiva: che possa cioè garantire il mantenimento del posto di lavoro ma anche le condizioni di miglior favore, a dispetto della condizione attuale di arretramento progressivo.

Dobbiamo infine riportare al centro del dibattito sindacale temi come l’internalizzazione del personale appaltato nei servizi pubblici e diventare protagonisti nella discussione sul salario minimo e sulla riduzione dei tempi di lavoro (a parità di salario), punti imprescindibili in un’epoca di automazione, digitalizzazione, telelavoro e, ahinoi, pandemie.

Vogliamo il contratto subito! Ma anche molto altro.

[L’articolo integrale è comparso su REDS n. 11, novembre 2020]

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