La critica di Andrè Tosel alla globalizzazione capitalistica - di Gian Marco Martignoni

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Andrè Tosel, “Un Mondo nell’Abisso”, Edizioni Punto Rosso, pagine 326, euro 22.

Dopo la pubblicazione nel 2020 del libro di Andrè Tosel “Studi Su Marx (ed Engels). Verso Un Comunismo Della Finitudine”, le Edizioni Punto Rosso con il recente “Un Mondo nell’Abisso”, sempre con la traduzione e per la cura di Marco Vanzulli, proseguono nel recupero delle opere di questo originale filosofo marxista, cresciuto alla scuola di Louis Althusser.

Sono sette i capitoli che compongono questo saggio critico della globalizzazione capitalistica, che per Tosel è solo una fase, al di là della grande narrazione mediatica, di un persistente “modo di produzione in evoluzione dalla fine del Cinquecento”.

Una fase dominata, a partire dal 1975, dall’avvento della restaurazione neoliberale, a fronte di una pesante sconfitta del movimento operaio e della mercificazione di ogni ambito della vita quotidiana, in quanto la flessibilità assoluta della forza lavoro, perseguita con l’introduzione del modello Toyota, ha comportato un significativo incremento della sussunzione del lavoro al capitale.

Infatti, con il passaggio dal taylorismo delle grandi concentrazioni operaie, ora delocalizzate in Cina, India, Brasile, ecc., al lavoro per squadre, si è accentuata la separazione tra il lavoro “concettuale”, riservato ad una élite, e quello massificato di carattere esecutivo. Tanto che Tosel, in polemica con la reiterata esaltazione del lavoro cognitivo da parte dei post-operaisti, rileva come la dinamica di questi processi lavorativi, incrementata da quello che definisce il “feticismo della rete” informatica, disintegra la stessa nozione marxiana di general intellect e sociale.

Altresì, le conseguenze della flessibilizzazione dell’uso della forza lavoro, stante la generalizzazione della condizione di precarietà, sono devastanti sul piano antropologico, poiché, per riprendere le illuminanti riflessioni di Zygmunt Bauman a proposito del capitalismo liquido, “l’insicurezza e l’impotenza sono diventate le categorie esistenziali per una crescente maggioranza delle popolazioni”.

Analogamente è enorme il disagio psichico e la sofferenza di quella parte di umanità che viene ritenuta superflua, dato che per la logica del mercato è considerata “invendibile”. Pertanto, la contraddizione abissale tra una superclasse mondiale dominante, e un enorme sottoproletariato dedito ad una faticosa e quotidiana sopravvivenza, è la brutale dimostrazione della disumanizzazione del mondo, al punto che le nozioni di progresso e di senso della storia sono entrate in una profonda crisi.

Anzi, dopo l’89, con la caduta nell’immaginario collettivo dell’utopia del comunismo, il corso della storia ha addirittura imboccato, per una serie di cause e concause, un preoccupante processo di disemancipazione, in quanto le gerarchie dell’economia-mondo e degli Stati sono tra l’altro sempre più determinate dalla trentennale guerra globale permanente e infinita, scatenata dalla superpotenza americana per il dominio del mondo.

Non a caso la concentrazione assoluta delle decisioni politiche ha prodotto l’eclisse della democrazia, la crescita dei populismi e dell’astensionismo elettorale, il ritorno dei nazionalismi e la degenerazione dei partiti politici. Inoltre, la dinamica incontrollabile dei fenomeni migratori, con la conseguente etnicizzazione della forza lavoro, è accompagnata da forme di razzismo sempre più esplicite, poiché viene dato per assodato che “vi sono uomini meno uomini di altri”.

Perciò con estrema lucidità Tosel si scaglia contro il ritorno alle guerre giuste, quelle “umanitarie”, condotte in Jugoslavia, in Iraq o in altri scenari del mondo, attraverso la giustificazione delle “bombe morali comunicative”. Inoltre, per questa ragione, analizza la prospettiva del globalismo giuridico cosmopolitico delineata dal filosofo e giurista Hans Kelsen, come pure sottopone a una serrata critica la filosofia dell’etica comunicativa elaborata da Iurgen Habermas, al fine di evidenziare i limiti dell’internazionalismo liberale. Mentre, in polemica con la nozione di Impero veicolata da Antonio Negri e Michael Hardt, rilegge e riattualizza le tesi contenute nell’imperialismo di Lenin, convinto della necessità di un neo-internazionalismo in grado di mettere al bando il concetto di guerra giusta.

Pubblicato in Francia nel 2008, quando fioriva il dibattito suscitato su scala planetaria dal movimento alter-mondialista, questo libro è contraddistinto da un vibrante umanesimo, che in ultima analisi si interroga su come resistere e con quali soggettività all’anti-mondo generato dall’impero del caos, senza peraltro rinunciare alla prospettiva egualitaria dell’essere in comune e di una vita buona.

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