L’orgoglio dei cavatori, quanta fatica per estrarre l’oro bianco di Carrara - di Frida Nacinovich

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Cavatori, gente fiera. Quando parli con uno di loro, uomini che fanno un mestiere antico come le statue e i palazzi di mezzo mondo, capisci che non è un lavoro come un altro. C’è un rapporto speciale fra i discendenti di un popolo che, blocco dopo blocco, ha reso questo francobollo di montagna famoso ai quattro angoli del pianeta, e le Alpi Apuane. A pochi chilometri dal mar Tirreno tosco-ligure, salire fin qui fa capire come il lavoro dell’uomo possa assumere una dimensione epica. C’è chi dice che siano sacre le lastre di marmo dei nostri tavoli da pranzo, costate attenzione, fatica e purtroppo anche sangue a chissà quanti operai. Marmi acquistati dagli scultori, di ieri e di oggi, per realizzare opere artistiche in grado di sfidare il tempo.

Francesco Dolci lavora in cava da ben 27 anni, era poco più che un adolescente quando ha iniziato a passare le sue giornate tra quei tagli ortogonali, quegli spigoli rifilati, che visti dai centri città di Massa e Carrara sembrano piccoli buchi nel formaggio. Ma che una volta arrivati sul posto diventano giganteschi. Perché la parete di cava è altissima. “Non sono un figlio d’arte - racconta - ho cominciato a lavorare qui perché ero rimasto orfano di padre, dovevo portare soldi a casa. Pensavo che sarebbe stato un impiego passeggero, in attesa di decidere con più tranquillità cosa avrei fatto da grande. Invece sono ancora qua, dalla metà degli anni novanta”.

Dolci, originario di questo comprensorio, conosciuto e apprezzato dai tanti turisti che affollano in ogni stagione la riviera tosco-ligure, tiene a puntualizzare come fra Carrara e le ‘sue’ cave esista un legame speciale, storico, culturale e artistico. “Sono orgoglioso di essere un cavatore, non lo nascondo. Lavoriamo all’aperto, è un mestiere duro, faticoso, rischioso, ma non lo cambierei. Basta vedere il panorama, con lo sguardo che corre a perdita d’occhio lungo il profilo delle cime e poi verso il mare, per capire il fascino ineguagliabile di questo lavoro, dove a dominare è la natura. Comanda lei, comandano le piogge, i venti, la neve d’inverno, il caldo torrido d’estate”.

Il cavatore scherza sulla sua abbronzatura: “I nostri compaesani quando ci vogliono prendere in giro, ci chiedono se siamo stati in settimana bianca. Non c’è molta differenza fra noi e i maestri di sci. Sotto il sole, i riflessi del marmo sono accecanti. Come la neve”. Delegato sindacale, iscritto alla Fillea Cgil, Dolci racconta come nonostante le evoluzioni tecnologiche, e le migliorie nei dispositivi di sicurezza, quello dei cavatori resti un lavoro a forte rischio. “Come dicono i vecchi del mestiere, bisogna avere occhi e orecchi buoni per capire il monte, ascoltarlo. Perché è vivo, si muove”.

Quello del cavatore è un lavoro che segue i tempi della luce, in estate può iniziare alle 6, a dicembre due ore dopo. “Ci cambiamo, si va nel piazzale di cava e poi si raggiungono i vari cantieri. Si tagliano pareti di monte per trasformarle in grandi blocchi, che saranno poi ulteriormente lavorati a valle nei laboratori”. La scorsa estate una lunga, dura vertenza ha infiammato l’intero comprensorio. “Nonostante un buon integrativo di zona rispetto al contratto lapideo nazionale, abbiamo chiesto una riduzione di orario di lavoro a parità di salario. Una lotta per migliorare la qualità della vita, per noi stessi e le nostre famiglie. Se anche a Tokyo, nel paese simbolo della produttività si inizia a parlare di settimana corta, questo vuol dire che i tempi sono maturi per lavorare meno e vivere meglio”.

I padroni, titolari anche da secoli di concessioni pubbliche, diventati nel tempo straricchi, non volevano cedere. Ci sono stati scioperi e grandi cortei di protesta, alla fine è stato trovato un accordo. “Le cave di marmo sono bellissime, ma anche una fonte non rinnovabile - osserva Dolci - una riduzione dell’orario di lavoro può anche creare un contingentamento della produzione. C’è una rabbia giustificata, non solo fra noi cavatori, nei confronti di chi sfrutta questo mondo, restituendo alla città poco e niente”.

Per i cavatori come Dolci la montagna non è solo il posto di lavoro, ma anche un luogo da preservare per le future generazioni. Nel suo cantiere lavorano in sette, divisi in due squadre. “Quando ho iniziato eravamo più del doppio, poi i vecchi sono andati in pensione e non sono stati sostituiti. Oggi l’età media è alta, sui cinquant’anni. È un peccato che non esistano più ‘cave scuola’, dove poter imparare i rudimenti di un mestiere riconosciuto come usurante”.

Il marmo di Carrara, pregiatissimo e conteso dai ricchi di tutto il pianeta, compresi gli sceicchi arabi che da decenni ne fanno incetta, è una ricchezza naturale inestimabile. “Dovrebbe essere orgoglio e ricchezza dell’intero comprensorio, non solo di pochi”. Anche nel dicembre scorso, nei giorni dello sciopero generale territoriale di Cgil e Uil contro la manovra economica del governo Meloni, l’astensione da lavoro nella zona è stata altissima, del 90%. “Lo sciopero è parte del nostro Dna, noi cavatori non vogliamo rinunciare a dire come la pensiamo”.

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