Letteratura, classe operaia e ospitalità. Quando la parola poetica fonda il legame tra terra, lavoro e immigrazione - di Fabrizio Denunzio

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Tra la morte di Alberto Asor Rosa (21 dicembre 2022), con il dovuto omaggio a “Scrittori e popolo” (Sinistra Sindacale 2023, n.2), e il Festival della letteratura working class organizzato dal Collettivo di Fabbrica Gkn e dalle Edizioni Alegre (31 marzo - 2 aprile 2023), per le quali Alberto Prunetti dirige la collana “Working Class”, sembra stia tornando a riproporsi nel dibattito culturale nostrano, dopo un lungo periodo di assenza, l’esigenza di una letteratura genuinamente operaia, alla quale in passato avevano dato contributi fondamentali Ottiero Ottieri (“Donnarumma all’assalto”, 1959), Paolo Volponi (“Memoriale”, 1952), Lucio Mastronardi (“Il calzolaio di Vigevano”, 1962), fino ad arrivare a Nanni Balestrini (“Vogliamo tutto, 1971”) e a Tommaso Di Ciaula (“Tuta blu”, 1978).

Se nel primo caso, a fronte di una classe operaia forte e combattiva come era quella italiana nei primissimi anni sessanta del Novecento, Asor Rosa riteneva di non dover suggerire alcun modello letterario ai lavoratori, dando per scontato che questo dovesse essere il grande romanzo borghese di Thomas Mann o di Marcel Proust, nel secondo si ritiene che - e questo a fronte di una classe operaia completamente frammentata dalla permanente rivoluzione conservatrice neoliberista degli ultimi trent’anni - una letteratura fatta da lavoratori per lavoratori riferita al mondo del lavoro, invece, possa stimolare la ricomposizione di classe, almeno su un piano simbolico.

In entrambi i casi la relazione tra letteratura e classe operaia si ritrova o sottodeterminata da un eccesso di mancanza d’immaginario narrativo (niente ‘pane’ agli operai), o sovradeterminata da un suo eccesso di presenza (tutto il ‘pane’ agli operai).

Il problema credo vada reimpostato in altri termini, almeno in questa contingenza storica, e partendo da altre premesse. Alain Montandon si chiedeva se l’ospitalità fosse solo un tema tra i tanti che attraversasse la letteratura o una sua questione fondamentale. A mio parere, la seconda è la risposta più corretta, tant’è che investe anche i classici anglo-americani del romanzo operaio: nella “Giungla” (1905) di Upton Sinclair, grande racconto sociale sulle condizioni disumane degli operai dei macelli di Chicago, l’unico momento di fraterna accoglienza il protagonista Jurgis Rudkus lo prova quando entra nel sindacato; nelle loro inchieste sociali sul mondo dei lavoratori scrittori del calibro di Jack London ne “Il popolo degli abissi” del 1903 o George Orwell ne “La strada di Wigan Pier” del 1936 hanno tenuto a ‘narrativizzare’ la dimensione ospitale e solidale delle classi subalterne, senza correre il rischio di mitizzarle.

Questo per dire che non si può dare una letteratura, fosse anche integralmente operaia per origine degli scrittori e per destinazione di pubblico, al di fuori della questione dell’ospitalità. Viceversa, non si può dare una letteratura dell’ospitalità senza che questa incontri la dimensione del lavoro.

La riflessione che segue vuole testimoniare che la letteratura, qualunque forma essa assuma, una volta trattata, come voleva Bertolt Brecht, nel suo valore d’uso, in quanto documento pratico ai fini della ricerca e della lotta politica, piuttosto che come un feticcio sacralizzato, può riservare grandi sorprese: “E mi sembra che proprio la lirica debba essere una cosa che si può giudicare senza tante storie, sulla base del suo valore pratico” (Brecht).

Durante il lavoro di ricerca accade a volte di imbattersi in fatti apparentemente micragnosi, piccoli e quasi del tutto insignificanti, interamente collocati nell’ordine più astratto della produzione intellettuale. Così può succedere che, ad esempio, leggendo un testo filosofico ultra specialistico sull’interpretazione di una lirica di un poeta tedesco del XIX secolo, si inciampi in uno di questi fatti.

Nell’“Avvertenza” con cui Chiara Sandrin e Ugo Ugazio aprivano nel 2003 la loro traduzione dal tedesco del libro di Martin Heidegger “L’inno ‘Der Ister’ di Hölderlin”, affermavano di rimandare, per quanto concerneva le traduzioni già disponibili in italiano delle poesie di Hölderlin, all’edizione Adelphi curata da Enzo Mandruzzato. Ora, può succedere di voler verificare questa affermazione, ossia di vedere se Sandrin e Ugazio abbiano effettivamente usato le traduzioni hölderliniane di Mandruzzato, e scoprire che le cose non sono andate proprio nella direzione da loro indicata.

Uno dei passaggi a mio parere più importanti della lirica “L’Istro” (redatta nella prima decade del 1800), dedicata dal poeta al fiume Danubio e oggetto dell’indagine del filosofo, è così riportata nel testo di Heidegger tradotto da Sandrin e Ugazio: “La roccia ha però bisogno di trafitture/e la terra di solchi,/ altrimenti non vi sarebbe alcun abitare”. Nella versione di Mandruzzato, alla quale i due traduttori heideggeriani dicono di riferirsi, questi stessi versi suonano così: “Ma la roccia ha bisogno/ di trafitture, la terra di solchi/ che altrimenti sarebbe senza ospiti e senza indugi”.

Passaggio fondamentale perché, come lo stesso Heidegger sostiene, non in questo commento che risale a un semestre accademico del 1942, ma in uno successivo contenuto in “Che cosa significa pensare?” del 1954, è il lavoro della terra a rendere possibile l’ospitalità, l’accoglienza, cioè, in una concezione fondativa di natura mitico-poetica, si ritrova indissolubilmente intrecciata a un’attività lavorativa di tipo rurale. E non a caso, nella versione originale tedesca, Hölderlin parla di una terra “Unwirthbar”, letteralmente ‘inospitale’ qualora non venga solcata dal lavoro umano, inospitalità resa indirettamente quanto direttamente sia nelle traduzioni francesi (“Où serait l’hospitalité, sinon […]”) sia in quelle inglesi (“Inhospitable it would be, without while”).

Quindi, a un’analisi più approfondita, la traduzione hölderliniana di Sandrin e Ugazio non solo non ha tenuto conto di quella di Mandruzzato, ma non ha neanche rispettato l’originale tedesco.

Ci sono piccoli fatti che parlano a grandi problemi, amava ripetere l’antropologo americano Clifford Geertz. Ora, questo piccolo fatto poetico-filologico, ricostruito velocemente spero in modo chiaro e intellegibile, parla, se non a un grande problema, di sicuro a una questione socio-culturale molto precisa: il ruolo della traduzione nei processi di comprensione e di accoglienza di ciò che è estraneo e straniero alla nostra identità nazionale.

Il caso che ho ricostruito ci serve a capire che la parola dell’altro, e il linguaggio è il primo medium con cui noi istituiamo una relazione di senso con lo straniero, non può assolutamente essere assimilata alle nostre esigenze identitarie, ma deve essere ospitata per quello che è e per ciò che essa vuol dire a prescindere da noi. Quando Sandrin e Ugazio fanno scomparire il riferimento all’ospitalità nella loro traduzione, in realtà stanno assimilando l’originale della parola poetica straniera alle esigenze del lessico identitario heideggeriano, dal momento che l’abitare è uno dei concetti chiave di questa filosofia.

In questo senso la traduzione come strumento di mediazione culturale svolge una funzione determinante, non solo per il rapporto immediato che istituisce con l’altro ma come momento di formazione di una coscienza linguistica ospitale, che sappia accogliere la parola straniera senza assimilarla ai dettami della propria identità.

C’è anche un altro ordine di motivi per cui questa poesia di Hölderlin è importante. Va da sé che senza un soggetto umano che lavori la terra questa sicuramente è destinata a rimanere inospitale. Chi sono questi lavoratori che affermano perentoriamente “qui vogliamo edificare”? Mentre Heidegger lega giustamente l’ospitalità al lavoro della terra, nulla ci dice di questa soggettività lavoratrice, preferisce fare il vago: “È probabile però che siano uomini o essenze appartenenti agli uomini” (Heidegger 2003, p. 28). Sempre se non vogliamo rassegnarci all’interpretazione che di questa umanità fu data da un insigne germanista italiano durante l’epoca fascista, Vincenzo Errante, che vide in essa dei “colonizzatori giunti dall’Oriente”, dobbiamo riconoscere in questo gruppo di uomini che rendendo ospitale la terra attraverso il loro lavoro creano al contempo le condizioni della loro stessa accoglienza, dei lavoratori immigrati: “[…] giunti/ da lontano, dall’Indo/ e dall’Alfeo; a lungo/cercammo la nostra sorte”.

È così che la parola poetica debitamente tradotta e correttamente interpretata fonda il legame tra terra, lavoro, ospitalità e immigrazione, e lo fa in una doppia prospettiva temporale: una mitico-fondativa che guarda a un passato immemore, e una utopico-rivoluzionaria rivolta al futuro, perché ci consente di immaginare una terra senza confini e proprietà, su cui popolazioni di immigrati si potranno liberamente stanziare senza che il loro lavoro venga più sfruttato schiavisticamente.

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