Sul salario minimo e dintorni - di Claudio Treves

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Sono felice della proposta delle forze di opposizione (AC1275) e che ciò abbia determinato la prima autentica difficoltà del governo. Le osservazioni sono quindi di sostegno al provvedimento e all’iniziativa che ne è alla base.

L’Istat ha quantificato la popolazione lavorativa povera partendo dagli anni ’90: calo del lavoro autonomo tradizionale e crescita di figure nuove (collaborazioni, prestazioni occasionali); calo tra i dipendenti del tempo pieno e indeterminato a favore del tempo parziale (per il 60% involontario) e a termine. Si rilevano poi le “vulnerabilità” della popolazione lavorativa (durata della prestazione, sua “intensità”: le ore lavorate in settimana, facilità di interruzione), riferite a età, genere, titolo di studio, cittadinanza, ruolo in famiglia, territorio e settore d’attività.

Risulta che il rischio di povertà lavorativa è maggiore in giovani, donne, stranieri, in chi ha un titolo di studio fino alla licenza media, nel Mezzogiorno, terziario e agricoltura. Ed è maggiore nelle coppie con figli minorenni e nei monogenitori (donne). In sintesi: “Nel 2022, il 59,9% degli occupati è classificato come standard (dipendenti a tempo indeterminato e autonomi con dipendenti) e il restante 40,1% si suddivide tra il 19,1% di lavoratori quasi standard (autonomo senza dipendenti, dipendente a tempo indeterminato o autonomo a tempo parziale), il 17,6% di lavoratori vulnerabili (il 10,8% perché dipendenti a termine e il 6,8% perché in part-time involontario) e il 3,5% di lavoratori doppiamente vulnerabili”.

Nel complesso, quasi 5 milioni di occupati (il 21%) sono non-standard, di cui 802mila doppiamente vulnerabili. A conclusioni analoghe era giunto il gruppo di lavoro istituito dal ministro Orlando: tre erano i fattori del lavoro povero, non sempre tra loro intrecciati: livello salariale, durata della prestazione settimanale, continuità nell’anno. L’Istat conferma che una retribuzione a 9 o 10 euro orari ridurrebbe i divari di genere e territorio (c’è più lavoro povero al Sud e tra le donne).

Cosa manca, allora, nel disegno di legge? Si è troppo insistito sulla retribuzione oraria non inferiore a 9 euro, trascurando il nesso tra applicazione cogente della contrattazione collettiva e livello minimo legale, vero salto di qualità del testo. I due temi sono stati contrapposti nel passato: la vera novità è connettere la valorizzazione della contrattazione collettiva con la funzione di tutela di ultima istanza svolta dalla legislazione.

Segnali erano presenti nel testo Catalfo (DDL 658) della scorsa legislatura, che riconosceva alla contrattazione dei soggetti “comparativamente più rappresentativi” la titolarità di stabilire il livello retributivo congruo (articolo 36 Cost.), purché non inferiore a 9 euro orari. Che tale impianto sia diventato proposta dell’intera opposizione è il fatto più importante. Manca la risposta su chi siano i soggetti “comparativamente più rappresentativi”. Il testo Catalfo in caso di “Pluralità di contratti collettivi nazionale applicabili” recitava: “Ai fini del computo comparativo di rappresentatività del contratto collettivo prevalente si applicano (…) per le organizzazioni dei datori di lavoro i criteri del numero di imprese associate in relazione al numero complessivo di imprese associate, e del numero di dipendenti delle imprese medesime in relazione al numero complessivo di lavoratori impiegati nelle stesse”. Si proponevano per la prima volta criteri per la rappresentatività datoriale, essendo consolidati quelli riferiti ai lavoratori. Omettere questo tema è un limite serio, da correggere introducendo criteri selettivi per la definizione della maggiore rappresentatività comparativa dei soggetti stipulanti, altrimenti non cambiamo la situazione.

Ci sono poi obiettivi che il disegno di legge non può conseguire, ma sarebbero necessari se si fa del salario minimo un pezzo della strategia di sostegno al lavoro. La proposta agisce solo sul primo dei fattori della povertà lavorativa (il livello reddituale), non sugli altri, che pure determinano gran parte del lavoro povero.

Bisogna legare la proposta di legge alla lotta alla precarietà da condurre sul piano contrattuale e delle modifiche legislative. Il tema è troppo complesso per riassumerlo qui, ma è essenziale non ridurlo al solo salario, né identificando un solo istituto (art. 18 o contratto a termine) come esaustivo del problema. Indicherei invece la via spagnola, dove la proposta del governo ha costituito la base per un negoziato tripartito con datori di lavoro e sindacati, per giungere ad una riforma sia del versante contrattuale (ripristino della prevalenza del contratto nazionale rispetto all’aziendale), sia alla modifica degli istituti della precarietà (stretta sui contratti a termine ed estensione della possibilità di ricorso al rapporto “fisso-discontinuo” per conciliare stabilità dell’impiego e flessibilità della prestazione), sia alla responsabilità solidale dell’impresa committente e la parità di trattamento lungo la catena delle esternalizzazioni. L’esempio spagnolo può essere utile per affiancare alla campagna sul salario minimo obiettivi più ampi che convincano le persone che “si fa sul serio”.

 

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