Identità, responsabilità, appartenenza: il grande lascito di Beppe Casadio - di Claudio Treves

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Un ricordo di Giuseppe Casadio – per me – può solo iniziare da una telefonata che arriva a Michele Gentile sulla spiaggia sarda dove le nostre famiglie sono in vacanza. All’altro capo del filo c’è Milena: “Beppe sta male, non riesce a stare in piedi”. Inizia così l’ultimo tratto della vita di Beppe, colpito da una malattia vigliacca, che paralizza l’apparato muscolare e che lo ha reso via via meno libero nei movimenti – dalle stampelle alla carrozzina, a dover modificare la propria abitazione romana fino a doversi ritrasferire a Faenza. Seppur limitato nei movimenti non viene mai meno a Beppe la lucidità mentale né si appanna il suo sguardo sul mondo, sostenuto in tutto questo e fino alla fine dall’amorevole cura di Milena.

In lui è sempre stato chiarissimo il valore al contempo politico e sociale della Costituzione. E il ruolo del sindacato confederale come soggetto politico e di rappresentanza. Se ne ha la “prova regina” nelle conclusioni che Beppe trasse al convegno del 2003 organizzato dalla Consulta giuridica della Cgil e da Magistratura democratica su “Riforma o controriforma del mercato del lavoro”.

In quella sede, all’inizio di quella vicenda drammatica che fu l’iter legislativo che doveva portare alla legge 30 e poi al decreto legislativo 276 (insomma alla “legge Biagi”), Beppe colse lucidamente e prima di molti il nesso tra l’attacco al lavoro e le proposte di modifica costituzionale che sarebbero poi state bocciate dal referendum del 2006.

Voglio scrivere dei tratti di Beppe che ho avuto la fortuna di conoscere lavorandogli a fianco per gli anni in cui lui era il responsabile delle politiche del lavoro nella segreteria confederale, ed io assunsi la responsabilità di coordinare il “suo” dipartimento dal settembre 2002. Beppe seppe al contempo assicurare a me e a tutti i compagni e le compagne del Dipartimento la certezza del sostegno della segreteria, e garantirci e anzi spronarci a fare “con la propria testa”. Cito tre episodi per dare conto di cosa significava per Beppe esercitare la funzione dirigente.

Il primo capitò poco dopo la prima bozza del decreto 276, ancora da emanare ufficialmente. Bonanni, allora responsabile delle politiche del lavoro per la Cisl e quindi corrispettivo di Beppe, chiese una riunione unitaria dopo lo strappo della firma separata del Patto per l’Italia (luglio 2002). Alla riunione, essendo a livello di segretari, penso ci debba andare Beppe da solo. Lui insiste che andiamo in due, e quando Bonanni chiede “cosa pensa di fare la Cgil” indica me, dicendo a Bonanni “cosa pensa la Cgil te lo dice Claudio”, il che causò a me un leggero mancamento, ma era il segnale esplicito per Cisl e Uil di compattezza dell’organizzazione che si pensava di aver isolato e costretto nell’alternativa tra “bere” accettando le norme o subirle senza poterle cambiare: la stagione contrattuale del 2004-5 dimostrò che si poteva incidere su quelle disposizioni, scartando alcune e modificando altre.

Il secondo episodio riguarda la lotta al sommerso, che in Beppe fu sempre molto presente: e proprio mentre si combatteva lo scontro sul (futuro) decreto legislativo 276 Beppe rafforzò il ruolo del Dipartimento affidando ad Alessandro Genovesi appena giunto in Corso d’Italia l’incarico di dedicarsi in particolare a questo tema, che poi sarebbe diventato una piattaforma – prima della Cgil e poi unitaria – fino ad aprire una vertenza col successivo governo di centro sinistra (Prodi II 2006-08) che ebbe significative ricadute nella prima legge di bilancio di quella legislativa (legge 296/06).

L’ultimo episodio riguarda un rituale tra noi: arrivo in sede la mattina, lo trovo sempre a leggere i giornali, andiamo a prendere il caffè spesso con Silvia, la sua segretaria, risaliamo e chiacchieriamo su quanto succede, sulle cose da fare. E lì tocchi con mano la straordinaria cultura di Beppe, la sua capacità di visione, e contemporaneamente la sua gentilezza, la capacità di ascolto, di interlocuzione aperta e ferma, la sua ironia che non lo fa mai prendere troppo sul serio. Durante quelle chiacchierate torna spesso il suo amato Bonhoeffer, il teologo protestante antinazista su cui si laureò e che lo accompagnò per tutta la vita (Milena diceva che lei aveva diviso da sempre Beppe con Bonhoeffer…) fino a pubblicare pochi anni fa durante la sua malattia una rivisitazione aggiornata della sua tesi di laurea. E succede una cosa che non mi è mai successa con nessuno degli ormai molti compagni e compagne con cui ho lavorato in questi anni in Cgil: che ti senti sicuro, sai di far parte di un collettivo, di un’organizzazione che esiste, che ha un’identità, e al contempo senti che dipende anche, forse soprattutto da te se le cose riescono, che hai tu una responsabilità verso gli altri che lavorano con te, che devi dare il meglio che puoi. Questo Beppe me l’ha trasmesso e gliene sarò grato per sempre.

Per finire: quando si ricorderà Beppe non si dimentichi lo straordinario lavoro che svolse in qualità di presidente dell’Associazione per il centenario della Cgil.

Noi abbiamo un compito: essere adeguati a quanto Beppe ci ha insegnato. Un abbraccio Beppe, e grazie ancora.

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