A Piazza Fontana esplode la strategia della tensione - di Francesco Palaia

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Il 12 dicembre 1969 sull’Italia piomba una spirale di violenza che infiammerà e condizionerà gli anni successivi. Una bomba esplode alla Banca dell’Agricoltura a Milano in Piazza Fontana, provocando 17 morti e decine di feriti. Contemporaneamente, a Roma, due ordigni esplodono alla Banca nazionale del lavoro, e un altro sul lato sinistro del milite ignoto. Una nuova parola entrerà a far parte del linguaggio comune: golpe.

Alla vigilia della strage, la morte dell’agente Antonio Annarumma è al centro della discussione politica. Il 9 dicembre si tiene alla Camera una seduta dedicata ai problemi della violenza e del terrorismo. In quella occasione, liberali, missini e monarchici sollecitano il governo ad assumere posizioni più incisive per quanto riguarda l’ordine pubblico. Il dibattito parlamentare si conclude senza un voto e ‘Il Corriere della Sera’ all’indomani della strage, collegando la bomba di Piazza Fontana a quel mancato voto, rimprovera al governo una incapacità risolutiva: “Nessuno avrebbe immaginato che quel mancato voto si sarebbe proiettato, con un’ombra sinistra di rimprovero, sull’intera classe dirigente”.

In quel dibattito parlamentare, il Msi, i monarchici e il Pli accusano il Pci di usare i sindacati per attuare il suo disegno eversivo. Comunisti, socialisti e sindacati, dal canto loro, esprimono preoccupazione per la benevolenza e la tolleranza che la polizia concede ai gruppi neofascisti nelle piazze, e iniziano a temere manovre autoritarie. Le spinte provenienti da destra premono sulla Dc per varare provvedimenti più restrittivi in tema di ordine pubblico. Il presidente del Consiglio Mariano Rumor, intervenendo alla Direzione del suo partito il 22 novembre, si dichiara pronto alle dimissioni. Il ministro degli Interni Restivo caldeggia la necessità di un cambiamento in tema di ordine pubblico.

L’autunno operaio diviene così un problema di ordine pubblico, e questa lettura si riversa sulla strage di Piazza Fontana, indicata da subito come figlia deteriore di quella stagione. Qualche ora dopo la strage, il prefetto di Milano, Libero Mazza, invia un rapporto al ministro degli Interni in cui ritiene “ipotesi attendibile che deve formularsi indirizza indagini verso gruppi anarcoidi o comunque frange estremiste”.

Anche la questura milanese segue questa pista. Le indagini successive dimostreranno invece la paternità neofascista degli attentati, ed anche i depistaggi compiuti da magistrati e funzionari di polizia per dirigere le indagini verso gli anarchici.

L’impatto della strage sull’opinione pubblica è traumatico. Il sindacalismo confederale prova ad accennare risposte collettive: il 13 dicembre a Milano e a Genova i sindacati organizzano unitariamente dei brevi scioperi in tutti i luoghi di lavoro. A Bologna i tram si fermano simbolicamente per 5 minuti. Successivamente le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil decidono anche di rinviare gli scioperi previsti per il 15 e il 16 dicembre riaffermando al contempo il valore civile e democratico delle lotte in corso. La sospensione degli scioperi previsti per il 15 dicembre viene decisa anche da Fiom, Fim e Uilm durante la trattativa per il rinnovo del contratto. Al contempo le organizzazioni dei metalmeccanici decidono di organizzare una serie di assemblee con i lavoratori in tutte le fabbriche per discutere con loro della “minaccia reazionaria” in atto.

Tutte le categorie si mobilitano. La strage crea un clima di forte tensione fra i lavoratori. Nelle fabbriche milanesi si rimane a lungo in attesa delle indicazioni confederali su cosa fare e come reagire. Cgil, Cisl e Uil e le forze democratiche milanesi sembrano quasi paralizzate dopo quanto accaduto. La Fiom spinge per scendere in piazza, per rendere visibile la presenza del sindacato ai funerali.

La sera del 13 dicembre viene dato alla stampa il comunicato che invita i milanesi a scioperare e a recarsi tutti ai funerali: astensione dal lavoro per il giorno 15 dalle nove e trenta ai turni di mensa e informale raccomandazione di non restare a fare il picchetto davanti alla portineria. Moltissimi lavoratori affollano una Piazza Duomo stracolma.

Con la decisione di indire lo sciopero generale Cgil Cisl e Uil, partecipando massicciamente ai funerali, guidano la mobilitazione popolare per esprimere cordoglio alle vittime, per difendere la democrazia e la convivenza civile, per isolare gli assassini e i loro mandanti e chiedere verità e giustizia. I sindacati tracciano così una strada da seguire in futuro. D’ora in avanti, lo sciopero generale unitario sarà il principale strumento con cui i lavoratori risponderanno pubblicamente al terrorismo, parlando alla gente e riappropriandosi dei luoghi di lavoro e delle piazze ferite.

Nel frattempo il legame fra i conflitti sociali, l’estremismo di sinistra e la strage è al centro dell’analisi costruita da ‘Il Corriere della Sera’, che individua i precedenti di Piazza Fontana negli attentati di aprile, nelle bombe ai treni e nella morte dell’agente Annarumma. Tra i sospetti fermati figura il ballerino anarchico Pietro Valpreda, accusato, in base alla testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, di essere il principale responsabile del massacro.

La stampa accoglie subito la versione delle autorità. “La bestia umana” è stata presa. Il canovaccio che vede un netto legame con le lotte operaie imbastito. Il colpevole è un ballerino anarchico.

Il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli ha invece un destino più tragico. Arrestato la stessa notte dopo l’attentato, trascorre le successive 76 ore nella questura di Milano. Il suo fermo si protrae illegalmente, senza la sua convalida da parte dell’autorità giudiziaria. Il 15 dicembre, appena dopo mezzanotte, muore precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi. La versione ufficiale parla di suicidio.

In una conferenza stampa, la stessa notte, il questore di Milano, Guida, presenta Pinelli come suicida e sicuro colpevole o complice degli attentati. La campagna della stampa contribuisce a creare un clima molto pesante. In una parte dell’opinione pubblica inizia a consolidarsi la convinzione della colpevolezza degli anarchici, e dell’esistenza di un legame tra gli autori delle stragi e gli aspri conflitti sociali che attraversano il paese.

Il ’68, per quello che significa come profondo mutamento culturale e presa di coscienza per larghe masse di giovani, l’autunno operaio, soprattutto come punto alto delle lotte e della forza di contestazione e di innovazione della classe operaia, segnano l’emergere a livello di massa di una grande domanda di cambiamento e di democrazia.

La strategia della tensione nasce e si sviluppa proprio come tentativo di arrestare e far tornare indietro i processi di trasformazione e di rinnovamento che nelle fabbriche e nella società la classe operaia stava portando avanti. Essa si articola su molti piani, tutti comunque convergenti, per provocare un riflusso verso destra dell’opinione pubblica in “un blocco reazionario - scrive Guido Crainz - che isoli i lavoratori e le organizzazioni sindacali e che, diffondendo la psicosi dell’ordine, della paura, della minaccia permanente alla convivenza civile, prepari sbocchi autoritari che saldino i conti una volta per tutte con l’avanzata operaia”.

Il terrorismo neofascista tende a creare false piste, a far addebitare alla sinistra e alle lotte operaie la responsabilità del caos e del disordine. Piazza Fontana segna quindi il punto massimo di questa fase. L’isolamento della classe operaia, tuttavia, dura poco. Il movimento sindacale decide di occuparsi direttamente della difesa dell’ordine pubblico, avendo la percezione della sovraesposizione delle istituzioni e della società italiana ad un rischio di collasso democratico.

Questo aspetto è il risultato della confluenza da un lato di un tratto di lungo periodo della cultura politica dei dirigenti sindacali comunisti, dall’altro dalle necessità contingenti imposte dalla strategia della tensione. Alla denuncia delle connivenze e delle inadeguatezze si affianca la decisione di un’assunzione di responsabilità: la difesa della democrazia e delle sue istituzioni. Questa difesa spetta alla classe operaia, soggetto protagonista del progresso civile e democratico.

Le bombe di Milano però non sono altro che la prima tappa di una escalation del terrorismo neofascista, che oltre allo stillicidio di attentati minori, di aggressioni e di omicidi, conoscerà altri tragici episodi. Emerge così un secondo scopo del terrorismo neofascista: quello di “creare una base sociale, un consenso da usare in funzione antidemocratica e antioperaia”.

In questo clima lo squadrismo neofascista lancia un’offensiva serrata ad opera di gruppi diversi e variegati: dai militanti del Msi a tutta la galassia dei gruppi che si muovono alla sua destra. Anche le aggressioni ai militanti di sinistra, alle sedi dei partiti e del sindacato raggiungono grande intensità. Nei mesi successivi Milano è l’epicentro delle azioni squadriste.

Quando il terrorismo stragista prima e la lotta armata poi appariranno nella loro interezza eversiva e nelle loro ramificazioni, i dirigenti e i militanti comunisti compiranno una scelta moralmente ineccepibile, coraggiosa e degna della tradizione resistenziale democratica e costituzionale del partito: la lotta frontale fino in fondo per sconfiggere ed estirpare il terrorismo e la violenza politica all’interno del mondo del lavoro e in tutti i settori della società e delle istituzioni deviate.

In questo contesto la Cgil torna a sperimentare i tratti di originalità che contraddistinguono il movimento sindacale italiano e ne fanno un unicum nel panorama europeo. Una Repubblica che nasce sul compromesso costituzionale con le forze del lavoro e che negli anni settanta arriva a reggersi sulla centralità sindacale fa sì che in quel tornante decisivo, come negli altri della storia del Paese, sia il sindacato a farsi carico della tenuta delle istituzioni, anche e fondamentalmente al di là del funzionamento classico di una democrazia liberale.

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