Ousmane Sylla, ragazzo - di Riccardo Chiari

Era poco più che un ragazzo Ousmane Sylla, uno delle migliaia di ventenni che rischiando ogni giorno la vita cercano di arrivare dall'Africa in un'Europa trasformata in una Fortezza dai governanti continentali, diretta espressione di Paesi che considerano la migrazione né più né meno che un crimine. A tal punto da aver creato un abominio giuridico come i Centri di detenzione per uomini e donne la cui unica colpa è quella di cercare una vita migliore.

In uno di quei veri e propri carceri, il Centro permanenza e rimpatrio di Ponte Galeria”, Ousmane Sylla si è ucciso impiccandosi alle sbarre della finestra, lasciando una scritta sul muro della sua cella: “Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta. I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”.

Ha scritto Valeria Parrella su “il manifesto”: “Lui ha lasciato una scritta semplice e incancellabile, quella scritta dice. Una scritta non è una cosa qualunque, una scritta è sempre un manifesto quando fatta su un muro, sta sempre a urlare agli altri anche quando ci sembra intima, come questa. Quella scritta dice. Dice quello che tutti sempre vogliamo, quello che ogni migrante sogna, andare, vedere, vivere, lavorare, aiutare chi abbiamo lasciato, tornare”.

Il suicidio di Ousmane ci riguarda, e interroga tutte e tutti. Soprattutto chi detiene il potere di costruire carceri destinate a chi non ha commesso alcun reato, e chi appoggia questa scelta. Ben sapendo per giunta che dietro le sbarre accadono spesso e volentieri violenze abominevoli, come accaduto nel carcere di Reggio Emilia dove un detenuto, condannato per reati legati allo spaccio a una pena di tre anni di cui uno ancora da scontare, è stato incappucciato e pestato a sangue per dieci, eterni minuti da una squadraccia di secondini, ora accusati formalmente di tortura.

 

 
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