La precarietà, ma non solo, alla base di salari da fame - di Sinistra Sindacale

Secondo un recente studio dell’Area Politiche per lo sviluppo della Cgil nazionale, condotto dall’economista Nicolò Giangrande, 5,7 milioni di lavoratori dipendenti hanno guadagnato nel 2022 in media meno di 11mila euro lordi annui. Ma la fascia del lavoro a bassa retribuzione è ancora più ampia: vanno infatti aggiunti oltre due milioni di dipendenti con salari medi inferiori ai 17mila euro annui.

Secondo lo studio, negli ultimi anni l’Italia, che già prima della ripresa inflazionistica si contraddistingueva per una lunga stagnazione dei salari reali, ha registrato una fase prolungata di alta inflazione (+17,3% nel periodo 2021-23) durante la quale la dinamica salariale non ha seguito quella dei prezzi. I salari sono stati infatti erosi da un’inflazione determinata principalmente dalla crescita dei profitti, come ha dovuto riconoscere il governo nell’ultima Nota di aggiornamento del Nadef.

Peraltro, tra il 1992 e il 2022, mentre i salari reali medi tedeschi e francesi hanno registrato una crescita sostenuta (+22,9% e +31,6% rispettivamente) quelli italiani, come quelli spagnoli (variazione nulla), si sono contraddistinti per una stagnazione di lungo periodo registrando addirittura una diminuzione (-0,9%). Di conseguenza, il divario salariale italiano con la Germania si è ulteriormente ampliato (da -5.200 euro del 1992 a -13.900 del 2022 annui), quello con la Francia ha cambiato di segno (da +132 a -10.200 euro) e quello con la Spagna si è ridotto (da +2.700 a +2.400 euro).

Nel 2022, nonostante un aumento dei salari nominali rispetto al 2021 in tutte e quattro le principali economie europee - Francia (+5,1%), Italia (+4,9%), Germania (+4,2%), Spagna (+3,0%) - la crescita dei prezzi al consumo – secondo Eurostat per Germania e Italia (+8,7%), Spagna (+8,3%) e Francia (+5,9%) – ha fatto sì che l’aumento medio dei salari nominali sia stato ampiamente insufficiente a compensare l’aumento del costo della vita.

Quindi tra i salari italiani e quelli tedeschi e francesi permane un ampio divario, sia per il livello salariale medio di partenza dell’Italia marcatamente più basso che per l’inflazione più alta: nel 2022 il salario medio in Italia si è attestato a 31.500 euro lordi annui rispetto ai 45.500 di quello tedesco ed ai 41.700 di quello francese (dati Ocse, lavoratore tempo pieno equivalente).

A determinare un minore salario medio in Italia concorrono una maggior quota di lavori non qualificati, l’alta incidenza del part time involontario (la più alta di tutta l’Eurozona con il 57,9% tra gli oltre 2,2 milioni di lavoratori part time) e del lavoro a termine (16,9%), con una forte discontinuità lavorativa. Nel 2022 oltre la metà dei rapporti di lavoro cessati ha avuto una durata fino a 90 giorni.

In sostanza, in Italia si lavora di più in termini orari - secondo i dati Ocse, le ore medie annue in Italia sono state 1.563, come in Spagna, decisamente di più che in Germania (1.295) e in Francia (1.427) - ma i salari medi e la loro quota sul Pil sono notevolmente più bassi.

Nel 2022, il salario medio dei 16.978.425 lavoratori dipendenti del settore privato con almeno una giornata retribuita nell’anno (dati Inps, esclusi agricoli e domestici) si è attestato a 22.839 euro lordi annui. Il 59,7% di questa platea ha salari medi inferiori alla media generale, ed è composto da oltre 7,9 milioni di dipendenti discontinui e da oltre 2,2 milioni di lavoratori part time per l’anno intero. L’aumento salariale nominale medio del +4,2% rispetto al 2021 (+911 euro lordi annui) è stato nettamente inferiore all’inflazione del 2022: per poter compensare pienamente l’aumento dei prezzi al consumo, il salario medio si sarebbe dovuto attestare a 23.800 euro lordi annui, circa mille euro in più rispetto a quanto percepito mediamente.

La differenza tra la media salariale del settore pubblico (34.153 euro lordi annui) e quella del settore privato è determinata in buona parte dal minor peso del part-time e della precarietà nei settori pubblici. E dallo studio emerge come i lunghi ritardi nel rinnovare i Ccnl determinino un’elevata quota di lavoratori con salari non aggiornati e del tutto “scoperti” all’inflazione.

Per Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil, “i dati non potrebbero essere più eloquenti. Se passiamo dal lordo al netto, risulta che, nel 2022, 5,7 milioni di lavoratrici e lavoratori hanno guadagnato l’equivalente mensile di 850 euro, altri due milioni di dipendenti arrivano ad appena 1.200 euro al mese. E la situazione non è certo migliorata nel 2023, anno in cui l’inflazione ha raggiunto il 5,9%, cumulandosi con quella dei due anni precedenti, raggiungendo un totale del 17,3%”.

Secondo Ferrari, “per recuperare il grande divario accumulato con gli altri grandi Paesi europei, occorre intervenire contestualmente su tutti i fattori che determinano i bassi salari: precarietà, discontinuità, part time involontario, basse qualifiche e gravi ritardi nel rinnovo dei Ccnl”.

 

 
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