Cosa dice il “Rapporto sullo stato sociale 2015. La grande recessione e il welfare state” di Felice Roberto Pizzuti

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Nelle ultime settimane, anche da noi, sono emersi segnali interpretati come inizio di una inversione di tendenza. Non è la prima volta, negli ultimi sette, otto anni, che ci siano segnali di ripresa, ma – purtroppo - finora le attese sono state sistematicamente smentite. Peraltro, nel dibattito internazionale si discute anche l’ipotesi di una “stagnazione secolare” delle economie avanzate, per effetto delle tendenze demografiche in calo e della crescente difficoltà di convertire gli sviluppi tecnologici in miglioramenti sostenibili di produttività e produzione.

Nel Rapporto si richiama l’attenzione sulle cause strutturali della crisi globale, sulle aggravanti specifiche nella zona euro, e su quelle del nostro sistema economico. Tra le prime, se ne segnalano tre di particolare rilievo: la crescita delle diseguaglianze che, oltre la valenza sociale e politica, indebolisce domanda, crescita e occupazione; l’aumento della precarietà di occupazione, redditi e condizioni di vita, che rende instabili gli equilibri sociali ma anche quelli economici, frenando investimenti innovativi di lungo periodo; lo squilibrio tra gli stati nazionali e i mercati, con i secondi globalizzati e autonomi dai primi, indebolendo le capacità stabilizzatrici delle istituzioni rispetto all’incertezza tipica delle scelte private.

In Europa, la maggiore gravità della crisi è connessa alle modalità del processo di costruzione dell’Unione europea che sta attraversando una prolungata fase critica. Le politiche della “austerità” stanno pericolosamente disamorando i cittadini europei verso il progetto unitario, alimentando la miopia dei localismi. Il minor rilievo accordato dalla Commissione europea agli obiettivi sociali contribuisce a spiegare l’aumento delle persone a rischio di povertà ed esclusione sociale, arrivate ad essere 123 milioni, il 24,5% della popolazione.

In Italia, la crisi economica e il peggioramento degli indicatori sociali sono stati più accentuati, alimentandosi l’uno con l’altra. Dal 2007 al 2014, mentre nella zona Euro il Pil è rimasto fermo, in Italia è diminuito di circa 9 punti; il tasso di disoccupazione, cresciuto nell’area euro di 3,7 punti percentuali, nel nostro paese è aumentato di quasi 7 punti. Fatta pari a 100 la spesa sociale pro capite a prezzi costanti dell’Unione a 15, quella italiana è diminuita da 81,4 nel 2007 a 74,8 nel 2012. Anche le diseguaglianze economiche, e la riduzione della quota dei salari sul Pil, da noi si sono accentuate più che nella media europea.

Le difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti di ambito mondiale datano già dagli anni ottanta del secolo scorso. La competitività è stata cercata seguendo la via “bassa”, cioè con la riduzione del costo del lavoro e l’aumento della flessibilità d’impiego dei lavoratori, trascurando gli investimenti innovativi e la formazione del capitale umano.

La spesa pubblica per istruzione è scesa al 4,2% del Pil contro il 5,3% della media europea, al penultimo posto nell’Eu15. Dal 2008 al 2011 la spesa per studente è diminuita del 12%, e siamo sotto la media europea di 13 punti percentuali. I docenti sono tra i meno pagati (l’83% della media Ocse; il loro stipendio è pari al 60% del guadagno medio di un lavoratore italiano laureato). Sia per trovare lavoro che per la sua remunerazione, studiare all’università conviene meno che negli altri paesi europei; nella popolazione tra i 30 e i 34 anni, solo il 22% è laureata, contro il 40% dell’Eu15.

La Commissione europea da anni non esprime più preoccupazioni per la sostenibilità finanziaria del nostro sistema pensionistico (continua a farlo per altri paesi); invece ci ha richiamato ad accrescere la spesa per istruzione e formazione, dove emerge una nostra vera anomalia.

La sostenibilità finanziaria del sistema pensionistico pubblico era stata assicurata già dalle riforme degli anni ’90: dal 1996, il saldo tra entrate contributive e prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali è attivo per valori che hanno superato anche il 2% del Pil. Nell’ultimo anno è stato di 21 miliardi di euro.

Nel prossimo ventennio la pensione media si ridurrà sempre più rispetto al salario medio, passando dal 45% attuale al 33% nel 2036. Per evitare che un gran numero di pensionati riceva prestazioni inadeguate, nel calcolo della pensione sarà necessario includere contribuzioni figurative per i periodi di disoccupazione involontaria, finanziati con modalità di solidarietà interna ovvero attingendo ai saldi attivi.

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