Overthefortress: a Idomeni per la sopravvivenza dell’essere umano - di Jacopo Pesiri, Ludovica Alberti

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https://www.produzionidalbasso.com/project/campagna-solidale-overthefortress-sostieni-il-viaggio-dei-migranti-assieme-a-noi/

Prima di partire per Idomeni ho fatto lo zaino. In quegli istanti non pensavo che tutte le persone che già si trovavano lì erano partite facendo la stessa cosa e non mi sarei mai aspettato, una volta a casa, che mi sarei chiesto: “Cosa porterei con me se non dovessi tornare indietro?”.

Entrare ad Idomeni, o in qualsiasi altro campo, è rinunciare al concetto di realtà cui siamo stati abituati da sempre. Viviamo nella dimensione del tempo e dello spazio, dimensioni di cui gli occupanti di quella campagna sono stati privati. Chi abita nello spazio di una tenda e vive nel tempo di una fila per la distribuzione di “qualcosa”, non ha né tempo, né spazio. L’unica dimensione che gli rimane è la speranza. La speranza che dal camion degli aiuti scenda qualcosa che possa servirgli a scaldarsi. Che tra le scarpe portate dai volontari ce ne sia un paio del suo numero. Che chi arriva lo liberi da quel limbo, spezzando quell’angosciante attesa, per dargli la possibilità di incamminarsi verso un altro “qualcosa”.

Cosa hanno aggiunto a quel campo i volontari di Overthefortress? Pochi oggetti, molta speranza. La stessa speranza che, nella storia, ha fatto da innesco ad ogni moto. La stessa speranza che ha preso la forma di un gioco, di un girotondo, di un racconto, di un abbraccio, una sigaretta fumata davanti al fuoco in cui bruciano traversini dei binari e sacchi di plastica.

Ad Idomeni abbiamo imparato proprio questo: che “restare umani” significa non perdere quel “qualcosa”: la speranza. E mentre in Italia ci si affanna a dire “aiutateli a casa loro”, proprio nelle loro case, le tende che sono una coltellata al cuore dell’Europa, abbiamo ricevuto l’aiuto che noi non siamo in grado di dare a questi popoli in fuga.

Piangenti di vergogna per ciò che vedevamo, siamo stati accolti da famiglie che non possiedono nulla se non l’umanità che si manifesta nel gesto più semplice, la compassione per le sofferenze altrui. “Perché piangi? Vieni, entra, bevi un caffè, mangia con noi, non essere triste, è Dio che vi ha mandati, significa che non si è scordato di noi”.

Come dei flash ci abbagliano la mente frammenti di vite che per brevi istanti si sono intersecate alle nostre. L’uomo che ha rifiutato i soldi dell’Isis ed è fuggito quando ha capito che si trattava di massacrare innocenti. Il padre a cui è stato imposto di scegliere quale delle due figlie veder stuprata. Il bambino nato in tenda che la vergognosa società dei commenti di internet ha chiamato “l’angelo di Idomeni”. La donna che lotta ogni giorno contro la violenza di un luogo in cui non può trovare l’intimità per essere donna. Le madri che hanno sorriso guardando i loro bimbi che giocavano con noi. L’imbarazzo delle ragazze velate nel rispondere con discrezione ai nostri sorrisi. I Kurdi, che con sé hanno portato un Saz, il loro strumento tipico, per ricordare nei canti tradizionali il proprio spazio e tempo.

Oltre alle storie commoventi, che sono parte di ogni tragedia, ci portiamo un pesantissimo carico di domande. Perché la nostra casa, l’Europa, che ci ha visti crescere nella glorificazione dell’unione tra i popoli, oggi schiva le sue responsabilità nei confronti del terzo mondo che è terzo solo perché ci sono un primo e un secondo?

Perché la nostra Europa si chiude a falange per prevenire l’ingresso di donne e bambini? Perché la nostra Europa, i cui pagliacci sono così usi al grido di “prima noi”, regala sei miliardi di euro alla Turchia invece che destinarli ai suoi popoli che si sobbarcano il peso del soccorso ai migranti? Perché ad Erdogan e non ai greci di Idomeni, o ai lampedusani? Perché viviamo nell’attesa della tragedia per postare su facebook la nostra insipida indignazione? Perché noi che non siamo al posto di comando dobbiamo arginare questo delirio?

Quando i nostri nipoti ci domanderanno: “Ma dove eravate mentre uomini e fango si confondevano nei campi di migranti?”, noi cosa risponderemo? Abbiamo scelto di poter rispondere, quel giorno, che siamo andati a vedere, a cercare di capire. E siamo tornati per poter informare, raccontare ed opporci. Opporci ai confini di un’Europa che deve imparare a dare risposte facendo onore alla sua storia, e non voltarsi per guardare altrove. Perché prima o poi finiranno gli altrove cui guardare.

Siamo partiti con uno zaino carico di “cose”. Ora al suo interno ci sono dignità, umanità, storie, e la consapevolezza dell’obbligo morale e politico di dissentire: l’unico bagaglio indispensabile nel viaggio per la sopravvivenza dell’essere umano. l

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