Diritti universali. In autonomia - di Andrea Montagni

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Con la Carta dei diritti universali del lavoro la Cgil ha fatto un salto di qualità nella riflessione su lavoro dipendente e autonomo. L’attività contrattuale della Filcams, categoria “di frontiera”, ha contribuito molto a questo nuovo approccio.

Il testo di riforma approvato modifica profondamente la II parte della Costituzione, ridefinendo funzioni e composizione del Parlamento, l’assetto istituzionale della Repubblica nella sua articolazione territoriale, e gli strumenti di partecipazione dei cittadini e delle formazioni sociali.

Nella deregolamentazione del mercato del lavoro prodotta dall’effetto combinato (e disposto) dei successivi interventi legislativi di liberalizzazione del mercato - dal pacchetto Treu alle leggi 30 e Fornero, per arrivare al decreto lavoro di Renzi - e dal via libera che i padroni ne hanno ricavato, i sindacati dei servizi si trovano al centro del ciclone: nei loro settori, la mancanza di una legislazione di sostegno e il proliferare di ogni tipologia d’impresa si prestano a ogni abuso e violazione di diritti dei lavoratori.

Sul piano della vertenza individuale la “soluzione” – quando il lavoratore si presenta in sede sindacale, spesso dopo il licenziamento - è facile (si fa per dire!): con il mandato del lavoratore, si scrive all’azienda, si rivendica il dovuto, si verifica la disponibilità a una soluzione condivisa, si trasmettono le informazioni all’Inps e all’Ispettorato del lavoro, e si passa la pratica all’avvocato.

Qundo si presenta l’opportunità di farne un fatto collettivo, che coinvolge anche centinaia o migliaia di lavoratori all’interno di un’azienda o di un comparto, scatta l’occasione di una vertenza collettiva nella quale strappare regole e diritti, tutele contrattuali per tutti.

La Filcams Cgil è intervenuta più volte, aprendo tavoli contrattuali, spesso d’intesa con Nidil o con altre categorie, nell’ambito della formazione professionale, della distribuzione di materiale pubblicitario, della rilevazione dati, della distribuzione al dettaglio, eccetera.

Fino ad oggi, la bussola che ha orientato la nostra attività è stata definire come rapporti di lavoro dipendente tutti i rapporti di lavoro riconducibili. “Lavoro dipendente”: un contratto collettivo nazionale cui fare riferimento, per orario di lavoro, misura della prestazione, salario per qualifica e livello, malattia, previdenza, previdenza integrativa e assistenza sanitaria integrativa. Una fatica di Sisifo per trasformare associazioni in partecipazione, collaborazioni e partite Iva in rapporti di lavoro dipendente, riconducibili ad uno dei Ccnl siglati dalla Filcams.

Sulla base dell’esperienza concreta si può fare un primo bilancio. Come ricordava Gramsci, “ogni male diventa minore e così all’infinito”. Aver correttamente valutato l’impatto delle trasformazioni dei rapporti di lavoro come aumento dei costi aziendali in imprese che si reggono esclusivamente perché scaricano sul costo del lavoro l’insieme dei costi di gestione, operando in un regime di concorrenza senza regole nei rapporti tra imprese e col mercato, e aver sottoscritto accordi di graduale raggiungimento della pienezza delle condizioni contrattuali: ma tutto ciò, invece di promuovere un comportamento virtuoso, ha prodotto malcontento tra i lavoratori. Perché spesso i salari mensili netti – sia pure a fronte di salari lordi più ricchi - risultano più bassi, mentre rigidità delle prestazioni ancorate all’orario di lavoro e crisi pilotate nelle aziende stesse vanno a scapito dell’occupazione. Spesso le imprese cercano contratti più convenienti, profittando della presenza di sindacati di comodo, ma anche della ormai vasta prateria di contratti firmati anche dai sindacati confederali, Cgil inclusa.

Si conferma la validità dell’orientamento di non accettare deroghe contrattuali, a nessun livello. Si prende una scala a scendere senza sapere quale sarà l’ultimo scalino e s’invogliano altri a spingere su scala analoga l’insieme dei lavoratori, anche quelli oggi tutelati.

Ci sono lavoratori che vivono l’autonomia della loro prestazione lavorativa come conquista di libertà, anche nel lavoro “povero”, che rivendicano il diritto di autodeterminare la quantità e la qualità della loro prestazione, attraverso la personale decisione del tempo necessario a realizzarla; e che vivono l’orario di lavoro come una camicia di forza. E’ un caso palese di falsa coscienza di sé, ma questo non significa che possiamo ignorare il loro punto di vista. E neppure escludere che, per una parte di essi, da esaminare caso per caso, la natura della prestazione lavorativa stessa comporti differenze profonde.

Con la “Carta dei diritti universali del lavoro” la Cgil ha fatto un salto di qualità nella propria riflessione. Credo che la nostra attività contrattuale – di categoria di frontiera, come dicevo in premessa – abbia contribuito, e parecchio, a questo nuovo approccio.

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