Donne in preda a una crisi di… lavoro - di Donata Ingrillì

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Era il mese caldo del luglio siciliano 2008. In quell’afa asciutta si gelò il sangue di centinaia di lavoratrici: paura, incredulità, smarrimento, scaraventate in un incubo dal quale non sarebbero più uscite. “Mi sono sentita franare il terreno sotto i piedi, crollavano tutte le mie certezze”, racconta Tina Traviglia, iscritta alla Cgil dal 1989, addetta a confezione e campionatura, “guardavo indietro e ‘ripassavo’ il mio lavoro alla macchina da cucire, la prima busta paga, i primi soldi veri guadagnati con fatica ma anche con l’entusiasmo di chi crea un capo con un marchio di qualità, ‘Castello’. E adesso…”.

Si annunciava la chiusura dell’Ite e della Camiceria “Castello”, realtà produttiva nata nel Comune di Brolo (Messina), marchio d’eccellenza che in 40 anni aveva varcato i confini nazionali, con 100 negozi in Italia e Svizzera, esportando in tutta Europa e creando occupazione qualificata, per il 90% femminile. Falliva un sogno cominciato a metà degli anni ‘70, su iniziativa di piccoli e medi imprenditori, spesso artigiani, e con il lavoro di migliaia di giovanissime ragazze. Un piccolo boom economico che aveva l’ambizione di diventare grande.

“Lavoravamo alla Castello dal 1994 e percepivamo la paga prevista dai Ccnl, cosa più unica che rara per una donna del sud. In famiglia eravamo quelle che avevano il reddito più alto e affidabile, e per questo avevamo sottoscritto a nostro nome i mutui per la casa. I mariti per lo più lavoravano in edilizia e in agricoltura, più precari e meno pagati”. Centodieci dipendenti, centodieci famiglie, un’esperienza trainante in un’area qualificabile come distretto del tessile abbigliamento, con decine di “fabbriche” piccole e medie, in una ventina di comuni con circa 100mila abitanti. Una occupazione femminile di oltre 3mila unità specializzate nella produzione “à facon” di capi per le maggiori firme nazionali. “All’inizio ci dicevamo che le cose si sarebbero aggiustate. La politica, le istituzioni, la Regione non avrebbero permesso che una attività con un tasso di occupazione femminile così alto, che distribuiva ricchezza a tutto l’indotto e sicurezza a centinaia di famiglie, chiudesse i portoni, spegnesse i macchinari e qualunque speranza di futuro. Abbiamo capito che non c’era niente da fare quando ci dissero che le banche non concedevano il credito”: esprime così la sua amarezza Angela Princiotto, operaia allo stiro. “L’incontro con il Prefetto di Messina non aveva dato risultati positivi e la Regione Sicilia non avrebbe rimesso alla ditta il milione e mezzo di euro che quest’ultima vantava per contributi mai liquidati”.

“La politica, le istituzioni ci avevano abbandonato. Accanto a noi, fino alla fine, solo la Cgil. Abbiamo difeso il lavoro con le unghie e con i denti, presidiato la fabbrica per due settimane, proposto la riduzione dell’orario, i contratti di solidarietà, tentato la costituzione in cooperativa. Niente da fare, muri di gomma: la procedura fallimentare, un copione già scritto”.

“Nel 2011 ci notificarono i licenziamenti collettivi, abbiamo pianto in silenzio. Ci avevano rubato il lavoro”, dice Sara Gregorio, reparto confezioni: “Eravamo disperate. Ognuna di noi si chiuse nel suo privato, come per sfuggire alle domande della gente, per nascondere una vergogna immotivata. Ci siamo ritrovate a fare i conti con carte e burocrazia, fine rapporto e mensilità arretrate, domande di cassa integrazione e mobilità. La maggior parte di noi aveva iniziato da giovanissima, assunte alla Castello e alla Ite tra i 20 e i 25 anni, e dopo 18 anni di fabbrica sapevamo fare solo quello, eravamo brave ma non serviva più a nessuno. Cinque anni di ammortizzatori sociali, unico mezzo per continuare a pagare i nostri mutui. Lavoro non ce n’era, se non in nero”.

“Che facciamo oggi? La maggior parte ha tra i 47 ed i 53 anni”, Sara Giardina dell’Ite ci guarda dentro gli occhi quando parla, “e una media di 18-27 anni di contributi”. Lei svolge lavori saltuari e precari, le più giovani nell’assistenza agli anziani e nei lavori stagionali. Solo una decina lavorano in piccole fabbriche del tessile abbigliamento sopravvissute alla crisi, in condizioni di precariato. Qualcuna si è riqualificata pagandosi corsi professionali per operatore socio assistenziale e sanitario. E la vita continua.

Tina, Angela e le due Sara ci sorridono con un velo di rimpianto: non doveva finire così. Non portano rancore verso chi ha voltato loro le spalle; guardano piuttosto il loro paese impoverito, dove con il tessile se n’è andata anche l’edilizia, l’agricoltura, vedono la disoccupazione schizzata alle stelle. Presagio di un futuro complicato. Ma dicono con orgoglio che il lavoro ha dato loro la dignità, e questa nessuno potrà mai portarla via.

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