Piombino, l’acciaieria trema, l’indotto è ko - di Frida Nacinovich

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Se si tagliano le radici, seccano anche i rami. La verità popolare racconta bene la storia della Sol spa, un’azienda con sede a Monza e stabilimenti ai quattro angoli del pianeta, il più grande a Piombino dove fino a tre anni fa era impegnata nella produzione di gas tecnici, indispensabili per il funzionamento dell’area a caldo. Con le Acciaierie di Cevital praticamente ferme - funziona un solo impianto per la produzione di rotaie - alla Sol è drasticamente diminuito il lavoro. Un destino comune a tutto il grande indotto dell’acciaio, che occupa un numero di addetti - circa duemila - quasi uguale a quello dei lavoratori diretti del polo siderurgico.

Gianluca Quaglierini lavora alla Sol da anni. Un tempo sufficiente per vedere diminuire il numero dei suoi compagni di lavoro. “Oggi siamo una decina, eravamo quattro volte tanti quando l’altoforno delle acciaierie funzionava”. Poi, tre anni fa, l’impianto è stato spento. Una scelta rovinosa, perché i laminatoi funzionavano grazie alle colate. All’orizzonte, aveva assicurato il governo, c’era un nuovo proprietario delle Acciaierie, l’algerino Issad Rebrab di Cevital. Specializzata nel settore agroindustriale, l’azienda africana aveva comunque assicurato la costruzione di due forni elettrici e di nuovi treni di laminazione.

“Sono passati gli anni, e tutto è rimasto fermo”, spiega Quaglierini. Le autorità algerine non fanno esportare i capitali a Rebrab, e l’imprenditore - dopo aver speso un centinaio di milioni ed avere assunto i 2200 lavoratori ex Lucchini con salario ridotto del 30% - ha avviato i contratti di solidarietà. “Ora è allo studio un solo forno elettrico, ma è chiaro che, nel frattempo, le materie prime per fare andare avanti i laminatoi devono essere acquistate altrove”. L’orizzonte è incerto, perché non è con il turismo, che pure aiuta l’economia locale durante la bella stagione, che si può andare avanti. Perché il futuro di Piombino, che si voglia o no, è legato all’acciaio. È la vocazione della città e dell’intera Val di Cornia da più di un secolo. E quando lo Stato decise di abbandonare la siderurgia vendendola ai privati, alla fine degli anni ottanta, ci furono scioperi, manifestazioni e proteste rimaste impresse nella memoria collettiva come belle pagine di storia operaia. “Dovremo tenere duro - sottolinea Quaglierini - sperando che i lavori del nuovo forno elettrico siano avviati al più presto.

Nel frattempo occorre bonificare l’enorme area dell’ex cittadella dell’acciaio, dove Rebrab vorrebbe costruire un polo agro-alimentare”. Gli addetti diretti sono in contratto di solidarietà. Ma quelli dell’indotto non hanno a disposizione questo ammortizzatore sociale. “Abbiamo fatto manifestazioni, presidi, scioperi. Negli ultimi giorni il ministero del lavoro ha preso contatti con i sindacati confederali, per aprire un tavolo espressamente riservato all’indotto. Ma si procede troppo lentamente per le esigenze di centinaia di famiglie”. Due anni fa alcuni battaglieri sindacalisti fecero lo sciopero della fame, si è creato un legame fra i lavoratori del settore chimico - come quelli della Sol - e i metalmeccanici di Aferpi e della Magona di Arcelor-Mittal. Filctem e Fiom insieme, in un territorio dove la Cgil riscuote molti consensi.

Quaglierini puntualizza che non solo la Val di Cornia ma anche l’Alta Maremma sta soffrendo a causa dello stop alla produzione di acciaio in quello che è il secondo polo siderurgico italiano dopo Taranto. “Ci avevano detto che la priorità era quella di sistemare il motore, poi avrebbero pensato all’indotto. Il problema è che il motore non è mai ripartito. Viviamo alla giornata, tutti quanti. La settimana scorsa hanno incrociato le braccia le lavoratrici delle pulizie di Aferpi, che rischiano il posto di lavoro”. C’è chi ha osservato che con i soldi della cassa integrazione si sarebbe potuto far ripartire l’altoforno. E c’è molto di vero in questa critica. Per giunta il governo sta trattenendo finanziamenti che erano già stati decisi. Federacciai sta facendo una guerra sotterranea a Rebrab perché ha paura che Aferpi tolga quote di produzione agli impianti siderurgici del nord Italia. Piove sul bagnato insomma.

Oggi l’indotto del polo siderurgico piombinese è quasi dimezzato, fra prepensionamenti, incentivi all’esodo, trasferimenti e cambi di lavoro, molti hanno separato la loro strada da quella dell’acciaio. “Se anche noi avessimo avuto la possibilità di usufruire dei contratti di solidarietà - precisa Quaglierini - in tanti non sarebbero andati via. Stiamo combattendo per avere anche nell’indotto gli ammortizzatori sociali dei lavoratori diretti di Aferpi, necessari per sopravvivere. Ma quello che chiediamo è il lavoro”. Nervi di acciaio per guardare al futuro.

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