Il silenzio assordante della resistenza palestinese - di Oriella Salvoldi

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Non una parola sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane è stata pronunciata negli incontri durante la visita di Donald Trump nei territori occupati. Come se la sofferenza dei più di 1.700 prigionieri al secondo mese di sciopero della fame fosse un fatto secondario; come se aspirare al rispetto, alla giustizia e alla libertà sia una dimensione estranea al processo di pace, che pure il presidente Usa ha dichiarato di voler favorire.

Forse è per questo, dall’ascolto di discorsi scollegati dalla tragedia quotidiana, che le madri dei prigionieri in sciopero hanno proclamato il silenzio per tutto il tempo di permanenza del presidente. Negando le loro voci ai tanti commenti che lo hanno accompagnato, hanno dimostrato di essere ben consapevoli del gioco strumentale in campo e reso più evidente la totale assenza di umanità e compassione che troppo spesso contraddistingue gli incontri fra i potenti di turno.

“Silenzio!”, il destino, dei nostri figli e nostro, è nelle nostre mani - mandano a dire a quanti sono in ascolto della loro resistenza. “Rivendichiamo condizioni più umane, rispetto e libertà a costo della morte”, continuavano a dirci dalle carceri i palestinesi in sciopero, allo stremo delle loro forze. Non di rassegnazione ci parlano queste scelte, ma di coraggio. Un coraggio agito pazientemente nel quotidiano di una esistenza per i palestinesi sempre più precaria e relegata, continuamente sottoposta a umilianti prevaricazioni, in nome di una pretesa lontanissima primogenitura in quella terra da parte dello Stato di Israele. La mostruosità del muro è lí a dimostrarlo, come i tanti check point disseminati nei territori occupati, i reticolati che circondano gli insediamenti dei coloni protetti da una ossessiva presenza di militari armati fino ai denti.

Davanti all’ostentazione di forza, tanti sono i fatti che richiamano il coraggio della popolazione palestinese. Fra questi si distingue quella di Bel’in, piccolo villaggio nel circondario di Ramallah, dove dal 2000, anno di avvio della costruzione del muro in quella zona, ogni venerdì viene indetta una manifestazione. Il corteo dalla piazza antistante la moschea del villaggio si dipana fra colline di olivi fin sotto il muro, per contestarne la presenza. Oltre il muro, di fronte agli uliveti, un’intera città, piena di grattacieli in netto contrasto con il paesaggio palestinese. E’ un insediamento israeliano, figlio della politica di espansione di Israele, che ancora rivendica terre per i coloni, invitandoli ad occuparle sotto la protezione dell’esercito, con contributi, sconti e facilitazioni, e sottraendole ai palestinesi, legittimi proprietari da più generazioni.

La lotta della popolazione di Bel’in ha ottenuto un primo risultato: il muro da vicino al villaggio è stato spostato a una distanza maggiore. Ma questo non ha fatto desistere i suoi abitanti dal contestare la sua esistenza e la devastante prepotenza subita che ha seminato vittime e privazioni. Qui, a ridosso del muro, giovani palestinesi progettano e realizzano orti. Una forma di resistenza - raccontano - per impedire che il muro si sposti ancora sottraendo altre terre. Lo fanno sopportando fatiche e un eccesso di costi, dato che lo Stato di Israele vieta loro di scavare pozzi, cosa consentita invece ai coloni.

Con l’imposizione di tasse onerose sulle esportazioni di prodotti palestinesi, lo Stato di Israele impedisce il loro accesso ai mercati internazionali, mortificando attività e favorendo povertà. Ma contemporaneamente alimenta in maniera “inconsapevole” un’economia più a misura umana, capace di inventarsi di volta in volta senza perdere quanto di meglio la tradizione ha saputo preservare e tramandare, oltre che perseguire una ricerca di “benessere” più solidale. A vantaggio di una resistenza - quella palestinese - vivace, capace di rigenerarsi continuamente e di inventare nuove forme, in netto contrasto con la crisi di partecipazione politica presente nei paesi occidentali e che si vorrebbe mondiale, cui ricondurre l’idea di una mancanza di sbocco per la Palestina che resiste.

Donne e uomini palestinesi, dalla prima occupazione del 1948, non hanno mai smesso di lottare e ci chiamano in causa. Le tante iniziative palestinesi in atto sono un giudizio preciso sull’indifferenza e acquiescenza di quanti, ieri come oggi, pur avendo avuto la possibilità di intervenire, non lo hanno fatto, nonostante la reiterata prepotenza e violenza praticata dallo Stato di Israele sia ormai svelata interamente e non possa trovare giustificazione alcuna.

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