Avvocati liberi dipendenti - di Cristian Perniciano

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Il 28 giugno scorso abbiamo presentato alla Camera il progetto di legge per far decadere l’incompatibilità tra professione di avvocato e lavoro subordinato in qualità di avvocato presso uno studio legale. La legge professionale forense, infatti, prescrive che non possa restare iscritto all’albo un avvocato che ha in essere un contratto di lavoro subordinato.

Questa incompatibilità non esiste per gli altri professionisti ordinisti, e nasce da uno storico orgoglio professionale che prescrive che l’avvocato sia un “professionista liberale autonomo e indipendente”. La narrazione parla di un sapere custodito dal “dominus” (“il signore”, così si chiama il proprietario dello studio), infuso a tirocinanti e giovani collaboratori ai quali fornisce la logistica e la mappa per orientarsi nel mondo dell’avvocatura, in un rapporto artigiano-apprendista che nelle intenzioni promette ai più bravi che lavorano per i più bravi di essere dei potenziali Leonardo alla bottega del Verrocchio.

Non sappiamo se tutto ciò fosse vero in passato. Sappiamo tuttavia con certezza che non è vero da anni. Il mondo degli studi legali è popolato di “dominus” e di avvocati che di questi sono di fatto dipendenti. Per compensi spesso molto bassi, lavorano come collaboratori a partita Iva, in rapporti in cui sono individuabili gli indici della subordinazione, come la soggezione al potere direttivo, organizzativo e gerarchico del datore di lavoro, l’esclusività dell’attività, il compenso fisso mensile.

In Francia sono definiti avvocati “sans papier”. In Italia la definizione migliore è banalmente precari, perché da un momento all’altro il rapporto di lavoro può cessare, per qualsiasi motivo, senza preavviso. E, sempre da un momento all’altro, quei lavoratori possono ritrovarsi senza lavoro, senza diritti e senza garanzie, con la quasi impossibilità di riconvertirsi, di reinventarsi, a causa di anni di lavoro eterodiretto che spesso si traduce in ricorsi ciclostilati che incatenano in un fordismo di fatto la loro professionalità, la loro responsabilità e la sbandierata professione liberale, indipendente e autonoma. Una dinamica aggravata proprio dall’incompatibilità dell’esercizio della professione “con qualsiasi attività di lavoro subordinato”.

Un contratto da subordinato potrebbe prevedere maggiore libertà, maggiori diritti, maggiore crescita professionale, mansioni con margini di autonomia. Lasciare alla contrattazione individuale - con gli attuali rapporti di forza - produce invece le situazioni descritte di lavoro subordinato da fabbrica, ma senza nessuno dei diritti previsti per i dipendenti. Questi professionisti da un lato hanno un trattamento equivalente o peggiore di quello di un impiegato, e dall’altro hanno gli stessi oneri fiscali e previdenziali del loro datore di lavoro. Peggio ancora, questi avvocati precari non hanno né le garanzie e le tutele previste per i lavoratori subordinati, né i vantaggi e le libertà riconducibili alla libera professione.

E’ per risolvere questo problema che la Cgil con Mga, con il contributo di Anf e l’appoggio a vario titolo di altre associazioni, ha presentato questa legge. Il mondo dell’avvocatura da anni ammette questa situazione, da anni cerca una sua soluzione, ma non ha mai provato davvero a risolverla. La parte più tradizionale del mondo forense e degli ordini sostiene che l’avvocato sia una professione troppo diversa dalle altre per poter essere ingabbiata nella subordinazione e ipotizza, al massimo, di istituire un contratto ad hoc per avvocati monocommittenti.

Tuttavia è importante essere chiari sullo scopo di questa legge. Non ci aspettiamo che una volta decaduta l’incompatibilità migliaia di avvocati siano assunti presso gli studi. Puntiamo invece alla diffusione di vere collaborazioni tra avvocati autonomi. Sappiamo infatti che tanti hanno la legittima aspirazione ad aprire un proprio studio. Le collaborazioni non regolamentate rendono ancor più difficile questo percorso. Lavorare senza diritti, per dieci o più ore al giorno, sei giorni a settimana, con mansioni spesso ripetitive, con il divieto di perorare cause proprie, senza riscontri economici variabili al variare dei risultati ottenuti, impedisce la costruzione di questa aspirazione.

Una volta innalzata questa diga - la possibilità di richiedere il riconoscimento giudiziale della subordinazione, ora alla portata di qualunque falsa partita Iva - le collaborazioni fra legali diventeranno genuini rapporti di lavoro autonomo, con la libertà e l’autonomia che devono caratterizzarli. E se nell’ottenere questo grande risultato daremo anche la possibilità a qualche “dominus” di diventare – liberamente - un datore di lavoro e a qualche avvocato l’opportunità di diventare - per libera scelta - lavoratore subordinato, accoglieremo questi effetti collaterali con una certa serenità.

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