Veneto. Un referendum per l’autonomia o per la separazione? - di Paolo Righetti

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E’ inaccettabile l’approccio strategico e culturale della giunta regionale sulle finalità del referendum del 22 ottobre: l’autosufficienza, Roma nemica e “ladrona”, “paroni a casa nostra”, e la riproposizione di una prospettiva di separazione.

Il referendum consultivo del 22 ottobre sull’autonomia promosso dalla Regione Veneto - così come dalla Regione Lombardia - al di là dell’evidente carattere di strumentalità politica ripropone il tema del rapporto tra i diversi livelli dell’organizzazione dello Stato, del federalismo, del regionalismo differenziato, a sedici anni dalla revisione del Titolo V e a pochi mesi dalla bocciatura della riforma costituzionale renziana nel referendum del 4 dicembre scorso. Una proposta di riforma su cui la Cgil aveva espresso un giudizio negativo per diversi motivi, tra cui proprio quello relativo al rischio di un’eccessiva concentrazione di poteri e competenze in capo allo Stato.

Ci stiamo interrogando da tempo su come superare le criticità emerse nel percorso di attuazione del Titolo V della Costituzione: si va dalla confusione sulla titolarità per le diverse materie, al conseguente e continuo contenzioso tra Stato e Regioni, allo scarto tra competenze decentrate, e al progressivo taglio lineare dei trasferimenti finanziari.

Per la prima volta siamo in presenza, da parte di due Regioni importanti come Veneto e Lombardia, di una decisione politica e di un iter procedurale aperto formalmente per l’applicazione degli articoli 116 e 117 della Costituzione, che regolano la possibile richiesta e attribuzione di maggiore autonomia da parte delle Regioni. Un iter che prevede un negoziato tra la Regione richiedente e lo Stato per l’individuazione delle materie; per l’indicazione e la ripartizione delle risorse necessarie a garantire sia il finanziamento delle funzioni attribuite sia la compartecipazione al fondo perequativo nazionale; per la verifica delle compatibilità con i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Poi un’intesa formale tra lo Stato e la Regione richiedente, e infine una legge approvata da entrambe le Camere.

La Consulta ha dichiarato legittimo solo il primo dei cinque quesiti proposti dalla giunta regionale del Veneto e illegittimi tutti gli altri per violazione dei principi e degli obblighi di carattere costituzionale (per violazione del vincolo di coordinamento della finanza pubblica, del divieto di referendum sulle leggi tributarie, della norma sulle regioni speciali…).

Successivamente, il 15 marzo 2016, la giunta regionale ha approvato la delibera 315 nella quale vengono definite le proposte di merito per il conseguimento delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. In sostanza la Regione Veneto richiede maggiore autonomia per quasi tutte le materie previste dall’articolo 117, e richiede di mantenere in regione il 90% della propria quota di compartecipazione a tutti i tributi erariali. Insomma il referendum si farà sull’unico e generico quesito ammesso dalla Corte Costituzionale: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”.

Sarebbe però sbagliata una lettura semplificata e riduttiva dell’importanza politica e delle finalità reali di questo referendum, o sostenere che non si capisce su cosa si stia chiedendo maggiore autonomia. In realtà il quesito è caratterizzato politicamente dalle proposte della citata delibera che ripropongono nella sostanza i contenuti dei quesiti dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale, delineano un’ulteriore articolazione del rapporto tra Stato e Regioni, e prospettano una potestà legislativa e amministrativa della Regione su quasi tutte le “materie a legislazione concorrente”. Un’impostazione che determinerebbe ricadute importanti anche sulla contrattazione, ipotizzando per alcuni importanti ambiti quali l’istruzione e la sanità l’assunzione come Regione di una piena titolarità non solo organizzativa ma anche sugli organici, sulle professionalità, e sul contratto di lavoro di primo livello.

Da tempo la Cgil del Veneto ha evidenziato che la decisione di effettuare il referendum non è un obbligo previsto dal percorso costituzionale ma una precisa scelta finalizzata a massimizzare il consenso politico, al di là dei possibili effetti concreti nel negoziato con il governo e nell’intesa obbligata con lo Stato. Un percorso costruito senza il coinvolgimento della rappresentanza sociale, inutile e molto costoso per il bilancio veneto e per la collettività, difficilmente percorribile sullo stesso piano costituzionale.

E’ poi inaccettabile l’approccio strategico e culturale con cui la giunta regionale motiva e sostiene le finalità del referendum: quello dell’autosufficienza, di Roma nemica e “ladrona”, del “paroni a casa nostra”, della riproposizione di una prospettiva di separazione come traguardo finale. Anche se può apparire contradditorio e poco credibile, in questa fase politica di caratterizzazione nazionalista e sovranista della Lega Nord.

Ma il cuore della nostra analisi, della nostra valutazione, del nostro rapporto con chi rappresentiamo, deve essere sul merito e sugli effetti che quella proposta determinerebbe. Nella prospettiva indicata dalla Regione Veneto si delinea un’ulteriore articolazione nel rapporto Stato-Regioni, una specie di autonomia differenziata, una frammentazione delle condizioni, anziché costruire un percorso per il superamento delle differenze già esistenti.

Si determinerebbe così una pesante riduzione delle risorse da destinare al fondo perequativo nazionale e al finanziamento delle funzioni di competenza statale, mettendo a rischio i meccanismi di solidarietà; l’omogeneità dei diritti e delle condizioni di accesso ed erogazione dei livelli essenziali di assistenza e prestazione; la stessa coesione nazionale. Inoltre l’ipotesi di una piena titolarità regionale sulla contrattazione, se acquisita, potrebbe innescare e determinare lo svuotamento se non il superamento del Ccnl, della sua funzione di tutela generale, di regolazione, di omogeneità normativa, una frammentazione e una differenziazione negativa e inaccettabile.

La Cgil ha contrastato il processo di forte accentramento e concentrazione di poteri e competenze verso lo Stato proposto nella riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre. Per la stessa ragione va ritenuta pericolosa e controproducente un’eccessiva concentrazione di poteri in capo alle Regioni, che non sempre hanno dato prova di buon governo - anche in Veneto - determinando quasi un nuovo livello centralista di governo, che rischia di essere penalizzante anche rispetto alle competenze e agli ambiti decisionali delle altre amministrazioni territoriali. Si può discutere di un serio percorso di responsabilizzazione, con il riconoscimento di maggiori deleghe e di maggiore autonomia, ma questo deve avvenire nell’ambito del pieno rispetto della Costituzione.

Più che un’ulteriore diversificazione dello status delle Regioni, serve una più chiara ripartizione delle competenze tra Stato, Regione e amministrazioni locali; una distinzione precisa tra le funzioni di indirizzo, di definizione dei principi e dei vincoli fondamentali, e quelle di organizzazione e gestione dei servizi; una maggiore adeguatezza e certezza delle risorse per gestire le rispettive competenze.

Un tema, quest’ultimo, che sta coinvolgendo altre regioni oltre al Veneto e alla Lombardia, e che si colloca nell’ambito della discussione e dell’analisi già avviata anche a livello nazionale sugli assetti istituzionali, e sulla situazione che si è determinata dopo il referendum del 4 dicembre. Un’analisi che richiama la necessità di coniugare unità del paese e decentramento istituzionale, attribuendo in modo più certo e definito le competenze e le titolarità dei diversi livelli, con una distinzione precisa tra definizione dei principi inderogabili e organizzazione dei servizi, tra programmazione e gestione, e garantendo gli indispensabili elementi di solidarietà, di universalità e di omogeneità dei diritti sociali e del lavoro.

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