Prima che diventasse l’attuale cumulo di macerie, la Striscia di Gaza era vista da tanti come feudo di Hamas, e i suoi abitanti immaginati armati fino ai denti. Chi invece conosce bene quella striscia di terra e la sua storia, al pari della vicina Cisgiordania, racconta cose completamente diverse. Alessandra Mecozzi, ex dirigente sindacale della Fiom Cgil, è impegnata da sempre nella tutela e nel sostegno umanitario e civile del popolo palestinese. Da alcuni anni con l’associazione “Cultura è Libertà” tiene accesi i riflettori sulla Palestina, valorizzandone, appunto, la cultura, una delle forme più alte di resistenza contro la politica colonizzatrice che vorrebbe annichilirla fino a cancellarne la memoria. Perché cultura è libertà.

Mecozzi è appena tornata dalla valle del Giordano per la campagna Faz3a – un’iniziativa guidata dai palestinesi per rispondere alla urgente necessità di una protezione civile internazionale dalla violenza israeliana (https://www.defendpalestine.org/) – in uno dei suoi innumerevoli viaggi verso quelle terre devastate da una violenza che va oltre l’immaginabile.

Il premier israeliano Netanyahu ha affermato, senza alcuna vergogna, che il suo obiettivo è quello di cancellare ogni traccia di civiltà palestinese dalla Striscia di Gaza, deportandone gli abitanti ed occupandola sine die, nel silenzio, tutt’al più nel balbettio, dell’Occidente.

“Viviamo in un mondo che si sta riarmando. E al di là di alcune inverosimili affermazioni anche da parte di figure istituzionali di primo piano, penso a Ursula von der Leyen, le armi non costruiscono la pace. Le armi portano sempre la guerra. Viviamo in un mondo, o meglio in una parte di mondo, volutamente sorda e cieca di fronte al genocidio di un popolo. C’è persino chi si ostina a non chiamarlo genocidio. Invece lo è, portato avanti con tutti i mezzi. Con le armi, le bombe, la fame, la sete, le malattie”.

Raccontaci quest’ultimo viaggio…

“Nella valle del Giordano la situazione è disperante. La presenza massiccia e le continue minacce dei coloni israeliani rendono la vita impossibile. Stiamo parlando di una terra ricca, fertile, il polmone verde e produttivo di frutta e verdura per tutta la Palestina, abitata soprattutto da pastori e agricoltori. Dei 300mila abitanti che c’erano prima dell’occupazione, prima del 1967, oggi ne sono rimasti poco più di 50mila. Sono continuamente sotto attacco, le violenze, le distruzioni, i furti di bestiame sono all’ordine del giorno. Il nostro compito era fondamentalmente quello di vigilare la notte, a turni, perché non arrivassero i coloni. E se arrivavano, di filmarli, documentare, riprenderli con la videocamera, ottenendo almeno un effetto deterrente. Una notte hanno bruciato la casa di uno di questi agricoltori. Ci sono stati spari, qualcuno è stato colpito. Sul sito http://jordanvalleysolidarity.org/it/ si possono trovare i racconti. La Jordan Valley Solidarity è una rete nata nel 2003, formata da comunità palestinesi della Valle del Giordano e da attivisti internazionali. Il suo obiettivo è quello di garantire la sopravvivenza della popolazione palestinese sulla propria terra e la protezione del patrimonio naturale del territorio, attraverso la prevenzione delle violazioni dei diritti umani perpetrate dalle autorità e dai coloni israeliani contro la popolazione palestinese. Questi ultimi vivono continuamente sotto minaccia, la nostra presenza consentiva loro di farsi almeno una notte di sonno”.

Una guerra in diretta, magari a bassa intensità rispetto a Gaza, ma pur sempre una guerra. Nessuno può dire di non sapere…

“Vedere quello che succede con i propri occhi ti fa entrare in quella realtà in maniera diretta, drammatica. Ti chiedi continuamente cosa si può fare per aiutarli. Per i palestinesi la cosa più importante è ‘resistere per esistere’. Vogliono restare nella loro terra, nelle loro case. Alcune sono semplici tende, perché una parte di loro è di origine beduina. Mentre eravamo lì, ad una famiglia che abbiamo conosciuto è arrivato un ordine di demolizione della loro casa. Gli israeliani arrivano di mattina, molto presto, e buttano giù tutto con i bulldozer. É importantissimo testimoniare con video e foto quello che avviene nel silenzio più totale, sia sui media che a livello politico. Con la nostra associazione cerchiamo di diffondere e far conoscere un patrimonio culturale enorme, attraverso i film, la letteratura, la musica, la traduzione di articoli dai siti israeliani e palestinesi. Vogliamo combattere stereotipi per cui si parla dei palestinesi unicamente come di terroristi, o di vittime. Mai come popolo che negli anni, nei secoli, ha contribuito alla storia dell’umanità”.

Da decenni si parla di una soluzione possibile con la formula ‘due popoli due Stati’. Lo ritieni possibile oggi?

“Negli anni della speranza, degli accordi di Oslo, della prima Intifada, quando c’era consenso internazionale su questa rivolta, allora si credeva che ‘due popoli due Stati’ potesse essere la soluzione. Alla fine degli anni Ottanta ero là, con donne palestinesi e israeliane che si impegnavano proprio sulla creazione di uno Stato e su come dovesse essere affrontato, nella sua costituzione, il tema dei diritti delle donne. Ma nel tempo, quelli che erano circa 100mila coloni nei territori palestinesi sono diventati oggi 7-800mila. A prevalere è stata l’impunità totale di Israele, in violazione degli accordi e dei diritti umani. Ora Netanyahu vuole eliminare fisicamente un intero popolo, lui lo dice a chiare lettere. E allora far conoscere al mondo la cultura palestinese diventa ancora più importante. Distruggendo Gaza, gli israeliani cancellano un patrimonio culturale di secoli. La città è molto antica, da lì sono passati tanti altri popoli, c’è arrivato anche Napoleone, e ognuno ha lasciato qualcosa. Finalmente l’Unesco ha approvato l’iscrizione del monastero di Sant’Ilarione, a Gaza nel comune di Nuseirat, nella lista dei ‘Patrimoni dell’umanità’ per proteggerlo dalla distruzione. Si tratta di uno dei monasteri più antichi della Palestina. Ma si è fatto molto meno di quanta fu la mobilitazione per i siti di interesse mondiale in Afghanistan, oppure in Siria. Di fronte alla barbarie di Israele non è stato fatto praticamente niente”.

Come si fa, in una situazione del genere, a continuare ad alzarsi la mattina sapendo che nel corso della giornata il tuo rifugio può essere bombardato, sia esso una scuola o un ospedale?

“Mi colpisce la capacità dei palestinesi di resistere, con la testa prima ancora che con il corpo. Con altre associazioni stiamo lavorando perché si possa realizzare a fine anno un festival di cinema per le donne. Proprio a Gaza nasce questo progetto. Sono decenni che si va avanti così. Manca la libertà di movimento, bisogna chiedere il permesso anche solo per andare a coltivare la propria terra. Quello che sta accadendo a Gaza è un genocidio, ma non è troppo diverso da quello che viene fatto in Cisgiordania. Si tratta di un colonialismo di insediamento, della sostituzione di una popolazione con un’altra”.

Quando sei andata per la prima volta in Palestina? Che ricordi conservi?

“Ci arrivai nel 1988, al tempo della prima Intifada. E poi molte altre volte. Con Gabriella Rossetti abbiamo curato il libro ‘Palestina Israele. Parole di donne’. Palestinesi e israeliane raccontano la guerra e il genocidio, il colonialismo, la dissidenza in Israele, le lotte in Palestina, l’unità oggi quasi impossibile tra palestinesi e israeliani. Abbiamo tradotto il libro ‘Il potere della musica: figli delle pietre in una terra difficile’, che racconta la storia di Ramzi Hussein Aburedwan da bambino dell’Intifada a studente di viola e fondatore a Ramallah in Palestina di una scuola di musica, Al Kamandjati (Il violinista), oggi con diverse sedi nel territorio. Musicisti da ogni parte del mondo arrivano ad aiutarlo: un violista lascia la London Symphony Orchestra per lavorare nella sua nuova scuola, un’aspirante cantante d’opera britannica si trasferisce in Cisgiordania per insegnare canto. È una storia sulla forza della musica ma anche sulla lotta per la libertà e sulla perseveranza (‘sumud’ in arabo) nonostante l’occupazione”.