
L’arrivo di Donald Trump e, prima ancora, l’aggressione russa all’Ucraina hanno progressivamente distolto l’attenzione dal G20, il club dei paesi dalle economie più forti del pianeta, almeno in termini di Pil. Un’attenzione che non si è mai materializzata sui Last 20 (L20). Per guardare il mondo dal punto di vista di questi ultimi lavora l’associazione L20, nata in occasione dell’incontro del G20 in Italia, presieduta da Tonino Perna, sociologo ed economista, fondatore del Cric di Reggio Calabria. L’associazione meritoriamente diffonde annualmente un Rapporto sulla situazione degli L20 (Last Twenty 2024, edizioni Città del sole).
Eccoli i paesi L20, in ordine alfabetico: Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Ciad, Eritrea, Gambia, Haiti, Liberia, Madagascar, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Repubblica centrafricana, Repubblica democratica del Congo (Rdc), Sierra Leone, Somalia, Sud Sudan,Togo, Yemen.
Le crisi che affliggono i paesi L20 sono multifattoriali. Conflitti armati, cambiamenti climatici, sfruttamento internazionale, terrorismo (soprattutto nel Sahel), difficoltà economiche, cattiva governance. Per questo, fra le strategie generali necessarie per affrontare la drammatica situazione in cui versano, il Rapporto suggerisce la riduzione della dipendenza dalle esportazioni di materie prime, l’attenzione ai cambiamenti climatici, in particolare promuovendo l’adattamento nelle regioni più vulnerabili, la ricerca di percorsi alternativi di sviluppo umano e civile, negoziati di pace. Anche la cooperazione internazionale deve fare la sua parte, purché non continui ad essere un altro modo, più o meno mascherato, di sfruttare e colonizzare paesi spesso ricchi di materie prime.
Mentre stiamo vivendo “la terza guerra mondiale a pezzi” con oltre sessanta conflitti disseminati nel mondo, si registra una forte spinta verso un mondo multipolare, in particolare con i Brics. Sulla carta per gli L20 esiste una maggiore libertà di scelta, ma anche il rischio di sostituire i vecchi padroni con i nuovi. Nel Sahel, ad esempio, la Russia ha estromesso la Francia, che vi regnava sovrana dalla fine dell’Ottocento. La Cina, dal canto suo, è riuscita in un quarto di secolo ad acquistare terreni e miniere nell’Africa sub-sahariana. Mentre ovunque imperversano multinazionali europee e statunitensi che proseguono lo storico colonialismo occidentale.
Anche il cosiddetto “Piano Mattei” meloniano riproduce il solito approccio: rapina delle risorse e finanziamenti per bloccare i flussi migratori. Intanto, nell’era Trump, il blocco dei fondi dell’Usaid colpisce le popolazioni più fragili: quelle che vivono nei campi profughi. Se i paesi L20 nel 2023 hanno prodotto 14 milioni di rifugiati e richiedenti asilo (primo l’Afghanistan), gli sfollati interni erano oltre 23 milioni (in testa Yemen, Burkina Faso, Rdc, Somalia, Afghanistan, Ciad e Sud Sudan). E sono gli stessi paesi impoveriti a ospitare i rifugiati da paesi vicini. Oltre i due terzi dei paesi L20 sono coinvolti in guerre, o lo sono stati negli ultimi due decenni. I conflitti armati sono una causa centrale del loro immiserimento.
Ma i venti paesi più poveri sono i più colpiti dall’ingiustizia climatica: il World Inequality Lab, curato dal Global Change Institute, rivela che fra i paesi più ricchi e quelli più poveri la disparità nelle emissioni climalteranti pro capite è maggiore della stessa diseguaglianza di reddito. Sono i paesi L20 a subire gli impatti peggiori di una crisi planetaria della quale non sono responsabili. L’Africa sub-sahariana, ad esempio, contribuisce alle emissioni globali per il 4-5%, ma è quella che sta pagando di più gli effetti della crisi eco-sistemica.
Benché negli ultimi decenni la situazione sia migliorata, oltre 2,2 miliardi di umani sono privi di un accesso all’acqua sufficiente, sicuro, vicino a casa, stabile. In tante realtà appare tuttora un lusso il consumo pro-capite di 20 litri giornalieri e perfino 10, per tutti gli usi. Scarseggiano idonei servizi igienico-sanitari (anche per il semplice lavaggio delle mani con il sapone). Ne deriva un impatto diretto sulla mortalità, come emerge negli approfondimenti settoriali del Rapporto.
Denutrizione e insicurezza alimentare rimangono sfide gravi, con peggioramenti significativi a causa di conflitti, violenza ed emergenze ambientali. La malnutrizione cronica (rachitismo) colpisce oltre il 40% dei bambini in Afghanistan, Burundi e Niger.
Il debito estero in molti L20 presenta percentuali basse sul Pil a confronto con quelle dei paesi occidentali. Ma in diversi casi c’è il rischio di default a causa del pesante servizio del debito. Le rimesse dei migranti – intorno ai 100 miliardi di dollari l’anno per la sola Africa – sono un elemento vitale dell’economia dei paesi L20. Ben più dell’aiuto allo sviluppo.
Le spese militari sono un indicatore importante. Burkina Faso, Sud Sudan, Ciad e Mali hanno spese militari intorno al 3% del Pil. Inferiori quelle del Congo Rdc, nonostante la guerra permanente in Kivu. In Somalia oltre il 20% della spesa pubblica va al comparto della difesa.