
C’è un referendum in arrivo, promosso dalla Cgil e sostenuto da tante delle nostre organizzazioni, che potrebbe ridare dignità al lavoro. Ma c’è anche chi – politici, imprenditori, opinionisti organici – scommette sul disinteresse generale. Contano sul fatto che molti resteranno a casa, così il quorum non verrà raggiunto. Così tutto resterà com’è: precario, instabile, ingiusto. Andare a votare e dire cinque volte “Sì” è un atto di giustizia e di resistenza.
Ricordate le promesse del governo Renzi? “Più lavoro stabile”, “più diritti per tutti”, “l’Italia cambia verso”. Peccato che a cambiare siano state solo le garanzie per i lavoratori, ridotte drasticamente. Il Jobs Act ha smantellato l’articolo 18, che tutelava i lavoratori contro i licenziamenti illegittimi. Il risultato? Secondo una valutazione dello scorso anno di Sbilanciamoci, in dieci anni si sono persi due miliardi di ore lavorate a parità di occupati, per la diffusione di contratti a termine e part-time involontari. Non solo: oltre il 28% dei giovani sotto i 35 anni ha contratti temporanei. Una generazione costretta a vivere con l’ansia della scadenza, impossibilitata a progettare un futuro.
Il lavoro c’è, ma è povero. E se sei giovane, donna o migrante, è peggio. Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia è tra i più alti d’Europa: 22,8% nel 2023, con punte che sfiorano il 40% al sud. Ma non basta: anche chi lavora spesso non guadagna abbastanza per vivere. Il fenomeno dei “working poor” colpisce soprattutto i più giovani, le donne e gli stranieri.
Le donne, ad esempio, continuano a subire un’occupazione più bassa (circa 10 punti sotto rispetto agli uomini) e più instabile. I migranti? Ancora peggio: l’11,4% degli stranieri non Ue risulta disoccupato contro il 7,2% degli italiani, e oltre il 60% dei laureati extra-Ue fa lavori non qualificati. E si sentono dire che “non si integrano”.
La cittadinanza negata non è un caso legato alla sfortuna personale: è una macchina per produrre sfruttamento. Ci vogliono fino a 10 anni per ottenere la cittadinanza. Nel frattempo, chi nasce o cresce qui, parla italiano, lavora, paga le tasse, è trattato come uno straniero. E spesso come un cittadino di serie B anche nel mondo del lavoro. Il risultato? Un esercito di lavoratori più ricattabili, sfruttabili, invisibili, come confermano gli stessi rapporti del ministero del Lavoro e di Integrazione Migranti. Anche perché non hanno voce, né diritto di voto.
Se non poniamo mano subito a questa situazione, riducendo le cause più evidenti della precarizzazione, le incombenti trasformazioni tecnologiche potrebbero aggravare ancora questo quadro già critico. L’introduzione massiccia dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi potrebbe sostituire, nei prossimi anni, circa 85 milioni di posti di lavoro creandone, tuttavia, 97 milioni di nuovi, ma con un rischio di ulteriori diseguaglianze.
Questa trasformazione, se non adeguatamente governata, non è solo una minaccia per i lavori più qualificati. Sta creando, infatti, una nuova forma di proletariato digitale, soprattutto tra i segmenti che abbiamo evidenziato: giovani e migranti. Si tratta di attività come descrivere immagini, trascrivere testi o correggere contenuti generati da algoritmi, lavori spesso precari, mal pagati e scarsamente protetti, con poche tutele sindacali e una concorrenza spietata tra i lavoratori. Inoltre, l’IA sta alimentando una nuova forma di sfruttamento invisibile, dove il lavoro umano è incorporato nei sistemi tecnologici senza essere riconosciuto come tale, una forma di “lavoro invisibile” che rende i lavoratori intercambiabili e facilmente sfruttabili.
Chi vuole il fallimento del referendum ha paura della democrazia. Chi scoraggia la partecipazione, dice “tanto non serve”, “non cambia nulla”, o, peggio, chi tifa per il non raggiungimento del quorum è dalla parte di chi ha interesse a mantenere le disuguaglianze, dalla parte di chi si arricchisce con il precariato, e pensa al lavoratore solo come un costo. Non è solo disillusione: è rassegnazione organizzata. Un sabotaggio della volontà popolare, perché sanno che se la maggioranza si esprimesse, direbbe “basta”!
I quesiti referendari toccano punti cruciali: licenziamenti, appalti, tutele per i rider e i lavoratori digitali. Cinque Sì per una visione alternativa del lavoro: più diritti, più dignità, più sicurezza. Votare Sì riafferma che il lavoro non può essere solo una variabile di bilancio. È la vita delle persone. Ciò che permette di costruire una casa, una famiglia, un futuro.
Votare è un atto politico, ma anche morale.Il cambiamento non arriva da solo. O lo fai, o lo subisci. Chi oggi resta a casa fa un favore a chi vuole un’Italia dove si lavora tanto e si guadagna poco, dove si può essere licenziati senza spiegazioni, dove nascere da genitori stranieri ti rende straniero per sempre.
Non c’è più spazio per l’indifferenza. Il referendum è uno strumento raro, prezioso. E può essere l’inizio di un’inversione di rotta. Ma serve il quorum, la partecipazione. Serve il coraggio di votare cinque volte Sì!