Sintesi dell’intervento al convegno “Referendum, lotte, contratti, democrazia, pace!” promosso da “Le radici del sindacato”.

Innanzitutto grazie per l’invito al dibattito di oggi. E’ la prima volta che partecipo a un’iniziativa in memoria di Peppino Impastato, una figura di militante che ci richiama ad una profonda condivisione di principi e valori, sia individuali che nelle nostre storie collettive.

Condivido molti degli spunti, degli interventi e delle sollecitazioni che ho sentito in questa giornata: del resto abbiamo compiuto e compiamo strade parallele. Andiamo nella stessa direzione, anche se poi non sempre ci incontriamo. Abbiamo anche il compito di fare una riflessione collettiva su come lavorare per la costruzione di convergenze. Partendo dagli elementi di contenuto, sapendo che vogliamo agire per cambiare l’ordine delle cose esistente. Il tema del cambiamento accompagna la passione degli interventi in questo dibattito, sentimento e convinzioni che dovrebbero sempre ispirare un buon sindacalista.

Facciamo questa riflessione in una fase che non ci è favorevole, né per il contesto internazionale, né per quello nazionale, dominati dalla questione della guerra. Mi associo a tutto ciò che è stato già detto sul genocidio del popolo palestinese e più in generale sulla guerra come prodotto di una fase del capitalismo e della sua crisi. C’è una concentrazione di sforzi produttivi, economici e finanziari funzionali alla guerra, che producono la guerra, fondati sull’idea del “benessere” non per tutti, ma per una minoranza sempre più ristretta. E’ in questa idea del “benessere” che l’industria dell’armamento diventa strumento per sostenere le economie occidentali.

La questione degli 800 miliardi Ue, della rincorsa agli armamenti ci parla di questo, di un’economia della guerra. La guerra diventa prodotto e sostegno di un sistema economico ingiusto, che pianifica la morte come elemento normale.

La lotta contro la guerra deve portarci alla progettualità di un’economia alternativa, un’economia della pace, fondata sull’universalità dei diritti, con i necessari investimenti in spesa sociale per sostenere la condizione delle persone e l’esercizio dei loro diritti. Un’economia della pace deve modificare la concezione di “progresso”, inteso come somma di fattori che tengono insieme crescita, sviluppo, progresso, riequilibrio ambientale in un’unica visione del processo economico che parta dal rispetto e la valorizzazione dei soggetti più deboli. Quindi c’è anche un tema di investimenti economici, a partire dal pubblico, a favore delle politiche di cura delle persone.

È necessario lottare contro il sistema e l’economia della guerra: invece di produrre armi bisogna produrre tutto quello che serve a rispondere alla condizione delle persone. Occuparci della condizione delle persone è un’altra idea di progresso economico e sociale, un progetto di sviluppo, un modello di società diverso, alternativo rispetto a quello esistente.

Visto dal mio osservatorio milanese, dove il modello di accumulo del capitale si sperimenta sui fattori delle produzioni immateriali e della rendita che si estrae dal territorio – un “modello del domani”, si potrebbe dire – fare la guerra per difendere la condizione privilegiata trascura e svuota del tutto il fattore lavoro.

Siamo passati da una fase novecentesca, dove l’accumulo capitalistico era determinato dalla sequenza “denaro, merce, denaro” a un tempo in cui l’accumulo di capitale diventa “denaro, denaro, denaro”, se pensiamo alla finanziarizzazione, in questo nuovo paradigma. Nella fase più avanzata, diciamo così, ci sono il denaro, i dati e il denaro, il tema dell’economia digitale.

Questi elementi di trasformazione cambiano anche materialità e cultura del lavoro, in un quadro completamente diverso dal paradigma novecentesco. Dobbiamo provare a rideterminare un progetto per un futuro più giusto, facendo i conti con queste trasformazioni.

E’ cambiata radicalmente l’idea dell’approccio al lavoro e del lavoro in quanto tale. Per la mia generazione il lavoro era strumento di emancipazione che consentiva di vivere dignitosamente. Ma il piano del lavoro per le generazioni più giovani è radicalmente cambiato. Ce lo dicono anche le piazze, quando si riempiono sulla dimensione dei diritti civili e non altrettanto su quella dei diritti sociali.

Lo dico con una battuta: l’albero può cambiare le foglie, ma non deve cambiare le sue radici. Allora, se vogliamo immaginare un futuro basato su radici solide, le nostre radici valoriali, dobbiamo provare a costruire una prospettiva che parli del futuro a chi il futuro deve ancora viverlo.

Troppo facilmente, anche nella contrattazione, abbiamo scaricato su quelli che non c’erano le tutele di quelli che c’erano. Si faceva stamattina l’esempio del pacchetto Treu: sono d’accordo, lì comincia lo spartiacque della lotta politica, anche all’interno del sindacato, sul tema della precarietà. Ci ricordiamo tutti quella stagione. Le grandi battaglie che insieme abbiamo fatto nella discussione interna alla Cgil. Oggi stiamo pagando il conto anche degli errori di allora. L’idea del futuro dimezzato, che in qualche modo abbiamo contribuito a costruire. Ovviamente, non i presenti con una storia di sinistra sindacale.

Si è accettata un’idea di modernità basata su un punto di vista valoriale di natura medievale. Un medioevo tecnologico, dove in teoria tutti abbiamo in tasca gli strumenti tecnologici. Ma il piano della possibilità delle persone di vivere dignitosamente viene minato.

Dobbiamo affrontare questa riflessione sul piano della cultura politica, dell’egemonia culturale. Abbiamo passato il ‘900 a parlare dell’internazionalismo, per la sinistra era quello del “proletari di tutti i paesi unitevi”. Ma oggi su scala globale c’è un’egemonia culturale di internazionalismo nella sua versione nera, certe forme di neofascismo, non soltanto nel nostro paese. Potremmo cavarcela con gli esempi di cronaca del Trump di turno, o nella cronaca nazionale con la Meloni piuttosto che con Salvini. Ma c’è una complessità maggiore, e ce lo dicono anche gli accordi internazionali, alcuni fatti anche da governi di centro-sinistra, sul tema delle migrazioni e dei migranti. Si è determinata una polarizzazione ulteriore, un’egemonia culturale di destra, in cui l’elemento della paura della diversità, assunta come un fatto anche di natura antropologica, diventa il terreno sul quale viene costruito il consenso. Fascisti e populisti costruiscono il loro consenso in questa dimensione.

Anche se guardiamo ai referendum, chi vuole facilitare l’astensione parla di quello sulla cittadinanza e non dei referendum sociali. Non è un caso, quello è il loro terreno privilegiato, basato sulla narrazione contro chi lavora, che non cerca il consenso nel campo del lavoro. Il nostro obiettivo è minare quel consenso, e offrire una prospettiva diversa a energie disperse nella propria solitudine. Di chi sta fuori dalla lotta sociale e politica, ai margini di tutto ciò che accade, e quando ne diventa partecipe lo fa in negativo.

Proviamo a mettere insieme il tema della guerra, della condizione materiale, di una destra che dà una risposta sbagliata, ma la dà, sul piano della condizione materiale, con la solitudine e con una sinistra sociale che, se pensiamo alla Cgil – ma non solo – prova a dare risposte alle questioni dell’oggi, non sempre sufficienti. Dobbiamo dircelo, perché, ad esempio sulla guerra, credo che ci voglia qualche cosa di più rispetto a quanto stiamo facendo!

A volte abbandoniamo anche alcuni terreni di di lotta. Si diceva qui del decreto legge sicurezza: abbiamo lasciato il tema sicurezza in mano ad altri, alla sola declinazione securitaria. Un terreno che abbiamo abbandonato. Declinato da sinistra il tema della sicurezza non è quello del poliziotto, dello Stato di polizia, della risposta penale alle lotte sociali. Ma quanto abbiamo parlato, noi, di sicurezza sociale? Di sicurezza del e sul lavoro? Quanto la politica, quanto la sinistra politica ne ha parlato? Non si vedono molte azioni concrete sulla sicurezza dal punto di vista di come una persona può costruirsi un futuro sicuro, cioè il tema del precariato, l’idea stessa della sicurezza del proprio futuro. Tutti terreni sui quali, avendo noi lasciato alcune parole lì vuote, altri le hanno raccolte e riempite. Allora, su questo e su altri terreni, dobbiamo fare un nostro percorso.

E’ auspicabile costruire tutte le convergenze possibili tra le diverse esperienze della sinistra sindacale nella Cgil per provare a individuare terreni comuni. Penso che un elemento prioritario, indicando alcuni temi di lavoro, sia la questione internazionale, delle interconnessioni con l’economia: non soltanto la dimensione della lotta di classe, ma anche dove va l’economia, per quale funzione.

Il tema della democrazia, dal punto di vista delle opportunità e delle forme di partecipazione interna ed esterna, perché abbiamo anche qualcosa su cui interrogarci all’interno della nostra grande organizzazione.

E un terreno fondamentale di un progetto di lavoro è la contrattazione. Noi siamo il sindacato della contrattazione. Ma il tema alla contrattazione sembra un campo neutrale. Ho fatto prima un esempio negativo su alcune soluzioni contrattuali che abbiamo fatto pagare a chi non c’era, agli invisibili di turno. E poi oggi diciamo che non ci comprendono… No, gli invisibili non si sindacalizzano facilmente, come è stato naturale per per noi. Quindi c’è un tema generazionale, c’è un tema di genere, c’è un tema di condizioni di provenienza, se nati in Italia o arrivati in Italia. C’è un tema di contenuti della contrattazione, che ovviamente non è un campo neutrale. C’è un’importante vertenza in questi giorni a Milano: i driver Esselunga nel complesso di un’azienda della Grande distribuzione organizzata.

Tutto questo senza mai abbassare la guardia, perché ciò che è stato può tornare. Il 17 maggio in Lombardia è previsto un raduno internazionale di neonazisti, che vogliono rimettere sulla scena politica il tema della razza, la “Reimmigrazione”, cioè deportazione dei migranti! E’ un terreno di lotta politica generale che non dobbiamo abbandonare! Grazie per l’attenzione.