
C’è un antico gioco, vecchio quanto il capitalismo stesso, che i padroni non smettono mai di rispolverare nei momenti di crisi: si chiama “metti i lavoratori gli uni contro gli altri”. È una manovra semplice e vile: prendi due categorie di lavoratori, magari quelli diretti e quelli in appalto, e fai credere agli uni che la colpa dei propri problemi sia degli altri. Intanto tu, padrone, te ne lavi le mani, ti nascondi dietro la filiera e magari, già che ci sei, provi anche a risparmiarci.
È precisamente questo lo schema adottato da Esselunga nella vertenza dei driver che consegnano la spesa a domicilio. Tutto comincia con uno sciopero proclamato dalla Filt Cgil Milano e Lombardia il 17 aprile scorso. Protagonisti le lavoratrici e i lavoratori impiegati nell’“ultimo miglio”, ovvero quello in cui la fatica si concentra e la responsabilità evapora, che lavorano per conto di Esselunga ma assunti da aziende in appalto come Brivio & Viganò Logistics, Cap Delivery e Deliverit.
Da tempo questi lavoratori denunciano condizioni di lavoro al limite della legalità: turni massacranti, mezzi sovraccarichi, straordinari imposti e violazioni sistematiche delle norme sulla sicurezza, oltre a mansioni imposte che non sarebbero tenuti a svolgere, in quanto driver e non facchini. Ogni giorno questi lavoratori movimentano manualmente 800-1.000 chili di spese, caricandole sui furgoni, scaricandole e consegnandole al piano, anche senza ascensore.
Di fronte alle richieste di regolarizzazione e rispetto dei diritti minimi, la risposta padronale è stata il silenzio e l’arroganza. Esselunga ha rifiutato ogni confronto, ogni tentativo di mediazione, persino quelli promossi dalla Prefettura. E mentre i lavoratori restano a mani alzate e piedi a terra, fermi ma determinati, l’azienda pensa bene di rispondere con pubblicità a pagamento sui giornali per screditare la lotta e rimborsi ai clienti per un servizio sospeso da essa stessa. Cioè: mentre i driver chiedono sicurezza, Esselunga compra pagine pubblicitarie. La salute dei lavoratori? Un tema di comunicazione aziendale.
Poi arriva la seconda mossa, la minaccia: “Se i driver continuano con la protesta, allora mettiamo in cassa integrazione oltre 700 dipendenti dei nostri centri”. Chiaro, no? Un tentativo di addossare la colpa dello sciopero a chi non lo ha neppure indetto. E così, il padrone prova a spostare il conflitto: non più tra lavoratori e azienda, ma tra lavoratori e altri lavoratori. L’obiettivo è sempre quello: spezzare l’unità, dividere il fronte, evitare di dover rispondere delle proprie responsabilità.
Ma è proprio qui che Esselunga si è sbugiardata da sola. Perché se davvero le richieste dei lavoratori in appalto fossero “esagerate”, “ideologiche” o “non sostenibili”, come mai il solo timore di doverle rispettare porta l’azienda a minacciare la cassa integrazione per i propri dipendenti diretti? Non è forse la prova, plateale e imbarazzante, che dietro l’impalcatura scintillante si nasconde un modello produttivo che si regge solo sull’irregolarità, la precarietà e il sacrificio sistematico della sicurezza? Altro che la Cgil che crea problemi e “cassaintegrati”, come qualche “giornale di regime” vorrebbe far passare: qui è la realtà a smontare la favola. Basta chiedere dignità per chi consegna la spesa e il castello traballa.
La cassa integrazione, minacciata e aperta per ora su 200 lavoratori di uno dei siti milanesi, se non fosse una reazione all’“ideologia” sindacale, sarebbe la conferma che questa azienda ha costruito la sua “efficienza” su basi che crollano appena si tenta di rimetterle a norma.
Eppure qualcosa è cambiato. La risposta dei lavoratori, delle rappresentanze sindacali delle categorie dei trasporti e del commercio della Cgil ha mostrato che il gioco vecchio del “dividi et impera” non funziona sempre. La lotta continua, lo sciopero non si è mai fermato, e i lavoratori, in appalto o diretti, hanno capito che il nemico non è il collega di fianco, ma chi gestisce tutto dall’alto e pretende di far passare lo sfruttamento come normalità.
La vertenza dei driver Esselunga non è solo una questione sindacale: è uno specchio del paese. Dove il lavoro povero cresce, la sicurezza è considerata un costo e il diritto di sciopero un fastidio da eludere con trucchi da prestigiatore padronale. Ma se i driver portano la spesa a migliaia di famiglie ogni giorno, è bene che quelle famiglie sappiano a quale prezzo lo fanno. E magari scelgano da che parte stare.
E’ l’ennesima vertenza che ci convince sempre di più dell’importanza dei referendum sul lavoro proposti dalla Cgil per l’8 e il 9 giugno. La mobilitazione va avanti. Perché non si può accettare che il prezzo del profitto lo paghino sempre gli stessi. E perché un sindacato vero sa che i diritti non si chiedono in ginocchio. Si conquistano. Anche consegna dopo consegna, fino al pianerottolo di casa.