
“Ostinati e contrari”, dal 5 al 7 maggio scorsi si è svolta a Milano la decima edizione del Festival dei diritti umani.
Hai trovato il viola giusto? I bancali con l’acqua non arrivano prima delle 8. Le immagini sono a 3840 pixel? Non riusciamo a far uscire nessuno da Gaza, proiettiamo il film “From Ground Zero”. Guarda che la traduzione dall’inglese non è precisa nel punto sulla difesa comune europea…
Se foste capitati nell’ufficio del Festival dei diritti umani in queste settimane avreste assistito a questi botta e risposta a metà strada tra il tecnico, l’editoriale, il politico e – meno male – tanto buon senso pratico.
Questa è la realtà che dal mio punto di osservazione noto sempre più spesso: chi fa lavoro culturale deve sempre barcamenarsi in un ambiente fluido, multitasking e indubbiamente precario. So che può sembrare una giustificazione, ma il Terzo Settore fatica a trovare i fondi necessari per coprire in modo adeguato i compensi equi per i propri collaboratori.
Chi non ha “santi in Paradiso” deve ricorrere a bandi, che sono quanto di più precario esista. Fidarsi dell’amministrazione locale? Potrebbe non essere una scelta furba: e se perdono le elezioni? E se l’assessore ha l’amico a cui deve un favore? Proviamo con i bandi europei, allora. Ma sarebbe più facile risolvere la formula di Fibonacci a occhi chiusi e mani legate… E allora? Allora si naviga a vista, sapendo che nessuna istituzione ti renderà la vita facile.
Immagino la domanda: ma almeno voi che parlate di diritti umani ci garantite di rispettarli con i vostri collaboratori? La risposta più onesta è: sì, ma in un contesto comunque di precarietà. In altre parole chi collabora con il Festival dei diritti umani sa che riceverà un compenso come lavoratore autonomo, legato al singolo progetto, terminato il quale si rimane amici – spesso anche di bevute conviviali – ma per il prossimo bonifico…ci sentiamo l’anno prossimo. Lavoro cognitivo precario, se non sbaglio, si diceva un tempo. Adesso potete usare la stessa formula, ma al quadrato.
Lo dico con la massima sincerità: non so come si possa risolvere questo problema. Noi, nel caso della Fondazione Diritti Umani, abbiamo trovato un modus vivendi: dirigenti e collaboratori credono fortemente nella nostra missione, e moduliamo la produzione – inviti internazionali, film, documentari, mostre – sulla base del budget, in modo da “auto-sfruttarci” con moderazione.
E’ un modello esportabile? Non saprei, ma non intendo assolutamente proporlo come modello. Funziona per gruppi ristretti, affiatati, con un forte senso del progetto politico che abbracciano.
A cosa serve un Festival sui diritti umani? Me lo chiedo, appunto, da dieci anni, da quante sono le edizioni finora svolte. Non sarei io a dover rispondere, ma le persone che l’hanno frequentato. Però un paio di cose penso di averle capite. La prima è che – come ci insegna il “nostro” Marcello Flores – la difesa dei diritti umani è sempre partita da un’esigua minoranza di persone. Il professore ci ha spiegato che la prima spinta per l’abolizione dello schiavismo nel Regno Unito avvenne grazie ai “12 di Clapham”, cioè una dozzina di intellettuali, religiosi e perfino uno schiavista pentito, che si ritrovarono in questo sobborgo inglese per elaborare una petizione abolizionista al Parlamento britannico nel 1787.
Non è poi così diverso oggi, se ci pensate. Soprattutto di questi tempi, quando rivendicare i diritti e contestare i privilegi può portarti in tribunale. Quindi la funzione di un Festival dei diritti umani è perlomeno quella di valorizzare le libertà di cui godiamo, fornire esempi di diritti riconquistati, nell’ottica di non sentirsi soli.
Il display dei diritti umani è vasto. Alcuni vengono considerati basilari e altri accessori. Questa divisione non mi ha mai convinto. Il lavoro dove lo mettiamo, nella parte alta o bassa della classifica? Per un bambino il diritto al gioco è fondamentale, per un adulto meno. I diritti delle donne possono essere concessi con gradualità diverse a seconda se vivi in Norvegia o in Arabia Saudita? Sono le domande che continuamente ci facciamo, e spesso le risposte arretrano o avanzano a seconda del quadro internazionale.
In questo momento è del tutto evidente che i diritti arretrano ovunque. L’elezione di Donald Trump ne ha sdoganato la cancellazione “in nome del popolo”. E a quanto pare nessuno ha trovato un’alternativa. Nel nostro piccolo continuiamo a provarci, sapendo – come da titolo del festival appena concluso – che andiamo in direzione ostinata e contraria.