Vincenzo Greco
Segreteria CGIL Milano (Italia)
Storicamente le guerre commerciali hanno fatto da preludio alle guerre militari.
Il Presidente Trump ha posto due questioni, entrambe funzionali al proprio interesse nazionale: l’aumento delle spese militari in carico ai Paesi componenti della Nato, i dazi commerciali.
I dazi rappresentano un cambio di passo rispetto alla tendenza all’espansione degli scambi commerciali che ha segnato la seconda metà del ‘900. Nello stesso periodo si è assistito ad una tendenza al contenimento (e/o alla stabilizzazione) delle spese militari in campo nazionale e ad una uguale tendenza, poi invertita, in campo internazionale. Pensiamo ai diversi trattati internazionali che hanno messo al bando diversi tipi di arma, oppure agli accordi bilaterali che prevedevano il fermo, ed il successivo decremento, delle testate nucleari di Stati uniti e dell’allora Unione Sovietica.
Proprio il collasso dell’Unione Sovietica ha ridefinito le caratteristiche degli equilibri economici e di potere nel mondo.
Si sono moltiplicati i conflitti regionali, le operazioni militari internazionali condotte dalla Nato (se non da parte di essa), l’arretramento del ruolo politico internazionale dell’Onu quale strumento di regolazione delle controversie su scala mondiale.
L’attuale contesto è il prodotto regressivo di ciò che si è affacciato su scala globale dal finire del secolo scorso.
Le caratteristiche negative sono accentuate dalla narrazione della difesa dei confini, che si somma alla teoria del nemico invasore, che prova a legittimare le azioni sulle quali si stanno orientando l’Europa e i suoi Stati membri.
Ci troviamo in una inversione di tendenza rispetto alla parabola discendente del ‘900: aumentano gli investimenti pubblici e privati in campo bellico, si convertono imprese manifatturiere dal campo civile al campo militare; gli indicatori della crescita economica delle economie nazionali sono incentrati e sostenuti dagli investimenti in armamenti.
Si è trasformato il rapporto tra causa ed effetto: dall’economia di guerra all’economia della guerra, da un’economia che soffre degli effetti della guerra ad un’economia che si alimenta della guerra.
Il dibattito europeo sulla costruzione di un sistema di difesa unico non si sostanzia nel coordinamento e nella razionalizzazione della spesa militare; al contrario ci propone un’idea di ‘fortezza europea’ che accentua il suo carattere bellicista come prodotto di una superiorità morale che giustifica un’astratta idea di vittoria in nome della quale è permesso armarsi per alimentare conflitti bellici.
Così, il paradosso della storia ci porta oggi a confrontarci con situazioni come quella della Berco. La società è di proprietà del gruppo ThyssenKrupp dal 1999, nel 1989 ha acquisito lo stabilimento Simmel di Castelfranco Veneto dove per 70 anni sono stati prodotti ordigni bellici. Negli anni ’90 la produzione del sito, a seguito dell’acquisizione, è stata convertita a civile seguendo la vocazione produttiva di origine del gruppo Berco che realizzava componenti e sistemi per carri e macchine per la lavorazione della terra. Oggi gli stabilimenti della Berco sono attraversati da una profonda crisi aziendale con minaccia di licenziamenti collettivi. Proprio sulla crisi aziendale si innesta il ricatto della guerra che diventa anche rivendicazione di parte del sindacato, ovvero ritornare alle produzioni per l’industria militare.
La guerra, l’economia della guerra, oltre ad essere il segmento dove ci sono i più alti investimenti nel campo dell’innovazione tecnologica, diventa risposta alla crisi economica del settore manifatturiero. Occorre anche ricordare che quei volumi economici di investimenti, nelle pieghe degli equilibri dei bilanci pubblici degli Stati, sono spesso sottratti alla spesa sociale.
L’economia della guerra uccide e riduce diritti.
Al rifiuto della guerra, alla lotta per la Pace, bisogna associare una economia fondata su un paradigma completamente differente.
Gli investimenti possono essere orientati nei segmenti della sostenibilità ambientale nel campo della ricerca, nelle bonifiche e nel ripristino del dissesto idrogeologico di interi territori che sono stati devastati dall’azione dell’uomo.
Non esiste sistema economico che produca ricchezza senza industria manifatturiera. Ciò su cui bisogna ragionare è la vocazione alla quale dedicare il complesso degli investimenti nell’industria manifatturiera. Bisogna rimanere nel campo della realizzazione di macchinari e infrastrutture al servizio delle attività umane e non contro di esse. Costruire macchinari per l’agricoltura piuttosto che carri armati; ridurre il bisogno di consumi energetici e rendere più efficienti le infrastrutture.
Gli investimenti devono anche essere destinati a rafforzare lo stato sociale nel campo della cura delle persone e della prevenzione, dell’inclusione per le fasce più deboli, del diritto all’istruzione e alla casa.
Occorre costruire una economia della Pace, che produca risorse da redistribuire, che allarghi la sfera dei diritti collettivi dai quali discendono quelli individuali, che determini quelle condizioni di libertà collettive che fanno della centralità della condizione materiale delle persone il presupposto per una società democratica.
Il movimento sindacale europeo ed internazionale si dovrebbe interrogare su un piano generale di strutturazione delle economie il cui primario obiettivo deve essere quello della rimozione delle cause, neoimperialiste e neocolonialiste, che determinano guerre, povertà e diseguaglianze.