Il nostro Pepe Mujica ci ha lasciato a 89 anni. Qualcuno lo ha definito il “Presidente impossibile”, seppure abbia ricoperto tale carica per soli 5 anni, dal 2010 al 2015. Ma il Pepe, come amorevolmente è stato chiamato, ha rappresentato un riferimento politico importante per le generazioni vecchie e nuove in America Latina, e non solo. È stato il simbolo di un modo non conforme di fare politica. La sua vita va letta nella sua continuità. Dall’esperienza del Pepe guerrigliero del Movimento di Liberazione Nazionale – Tupamaros fino all’esperienza istituzionale e al suo ritiro, mai avvenuto completamente se non con la sua morte.

È stato un susseguirsi di rotture, ripensamenti e azioni. La rottura con le pratiche politiche ortodosse, rappresentate dai partiti comunisti, avviene già negli anni ‘60 quando entra nel movimento Tupamaros, un gruppo guerrigliero popolare in cui confluiscono ispirazioni teoriche e ideologiche diverse di sinistra. Dopo l’arresto del 1973, superati circa 15 anni di carcere con isolamento e torture, nel 1985 viene liberato con gli altri guerriglieri a seguito della caduta della dittatura. Una liberazione di massa acclamata da migliaia di uruguaiani. Una Festa di Liberazione.

La Festa è una forma catartica che attraversa la storia politica del popolo uruguaiano: l’abbiamo visto alle elezioni del novembre scorso e ai suoi funerali, con il popolo che ha invaso le piazze.

Un animo certamente ribelle ma intrinsecamente allegro, che Pepe ha saputo trasmettere al suo popolo. Dopo il carcere, insieme a Raul Sendic e innumerevoli altri compagni, trasforma l’esperienza della lotta armata nella costruzione del Mpp, Movimento di Partecipazione Popolare, che confluisce nel Frente Amplio, il raggruppamento della sinistra. Con costanza il Mpp si rafforza fino a diventare la forza politica principale del Frente. Anni di duro lavoro per ricostruire un rapporto solido con il popolo, fino a raggiungere i favolosi risultati elettorali degli anni 2000.

Le parole di Raul Sendic, leader indiscusso dei Tupamaros, morto nel 1989, rappresentano il pensiero di quel momento politico: “Se cominciassimo a discutere delle nostre differenze, potremmo passare tutta la vita a discutere. Se cominciamo a lavorare sulle nostre coincidenze, passeremo tutta la vita a lavorare”. Il Pepe ha rappresentato questo senso pratico, la necessità dell’unità come fondamento dell’agire politico a sinistra; grazie anche alla sua capacità empatica, l’incanto del suo modo di parlare, semplice, chiaro e ad effetto, comprensibile anche a chi non conosce a pieno la sua lingua. Negli ultimi tempi, sempre più vecchio, non si stancava di parlare ai giovani, che amava, ampiamente corrisposto. Era in grado di sintonizzarsi con la loro angoscia per il futuro, riuscendo a trasmettere la speranza del cambiamento.

Ha messo al centro del discorso politico la concezione del tempo: sottrarre tempo al lavoro e al consumismo, ribellarsi allo schiavismo del produrre per consumare di più, scoprire il tempo degli affetti, della cura e della relazione. La sua sobrietà, la sua estraneità al consumismo, non era solo un modo di vita, ma un manifesto politico di ecologia sociale, una proposta di politica e di postura istituzionale. Si muoveva con la sua Volkswagen Maggiolino del 1987, un mezzo rottame, senza scorta anche quando ricopriva incarichi istituzionali, guadagnando non più di 800 euro al mese e coltivando direttamente la terra intorno alla sua casa. La sua capacità di ascolto, di accogliere le innovazioni, con senso laico, aperto, mai ortodosso e conservatore gli ha permesso, da ministro dell’Agricoltura e poi presidente della Repubblica, di realizzare cambiamenti coraggiosi.

La regolamentazione della cannabis – che l’Uruguay ha legalizzato il 10 dicembre 2013, primo Paese al mondo – ne è un esempio evidente. La legge ha reso legale la coltivazione per uso personale (anche cooperativo), e lo Stato protagonista della coltivazione a più ampia scala, con vendita nelle farmacie e l’intera filiera sotto controllo pubblico.

La riforma è nata da una precisa visione politica e sociale, facendo i conti con la realtà e profondamente critica del proibizionismo, che ha fallito nel contenere il consumo, ha alimentato il narcotraffico e rafforzato la criminalità organizzata nel mondo, particolarmente feroce in sud America. Legalizzare la cannabis ha significato togliere potere e risorse alle mafie, offrire ai cittadini prodotti controllati, e avviare una nuova politica pubblica basata su prevenzione, informazione e tutela della salute.

I risultati hanno confermato la lungimiranza di questa scelta: il mercato illegale ha perso oltre il 56%, il consumo non è aumentato e il dibattito pubblico sulle droghe si è spostato verso un approccio più pragmatico e razionale.

Pepe ci teneva a precisare che i risultati ottenuti erano il frutto del lavoro collettivo e dell’intenso confronto quotidiano, quasi estenuante, che caratterizza la vita politica e personale dei tupamaros. Grazie Pepe Mujica.