
Comunque vada, sarà un successo. Perché già oggi, prima ancora del voto dell’8 e 9 giugno, il percorso referendario promosso dalla Cgil e da una larga alleanza sociale e democratica ha rimesso in moto un’idea forte di politica: quella che nasce dal basso, si nutre di giustizia sociale e punta a cambiare le regole per cambiare la vita delle persone.
Siamo davanti a un passaggio cruciale. I cinque quesiti referendari toccano nodi strutturali: la precarietà eretta a sistema, l’impunità nei licenziamenti illegittimi, la fragilità della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, la negazione di diritti fondamentali come la cittadinanza. Ma questi referendum vanno ben oltre la dimensione tecnico-giuridica: sono un atto politico, una sfida di civiltà.
Una proposta per il Paese, come ci siamo detti quando lanciammo la sfida come coalizione de “La Via Maestra”. Perché rimettere al centro la dignità del lavoro significa rimettere al centro la dignità della Repubblica, dei suoi cittadini, così come la nostra Costituzione l’ha immaginata.
La mobilitazione in corso – con assemblee, banchetti, incontri in tutta Italia e in Europa – testimonia che c’è un popolo che non si rassegna all’idea che non ci sia alternativa. Un popolo che non accetta più che i diritti siano concessi a pochi e negati a molti. Un popolo che si assume la responsabilità di fare quello che la politica istituzionale, per troppo tempo, ha abdicato a fare: difendere i diritti sociali, contrastare la disuguaglianza, costruire futuro.
Siamo di fronte a uno sforzo enorme, non vi è dubbio. Lo è per chiunque abbia a cuore la democrazia, la giustizia sociale, la lotta contro un modello neoliberista che ha precarizzato il lavoro, privatizzato i diritti, frammentato la società. Ma questo sforzo sta generando qualcosa che va oltre la campagna elettorale stessa: una nuova presa di parola collettiva, una rottura simbolica con l’individualismo competitivo che ha dominato gli ultimi decenni.
È un dato politico importante che a mobilitarsi non siano solo i più colpiti dalle norme inique, ma anche tanti e tante che – pur non avendo nulla da ottenere direttamente – scelgono di esporsi per estendere diritti e tutele a chi oggi ne è privo. È il segno di un passaggio culturale: dalla difesa del proprio al riconoscimento dell’altro. Dalla società degli individui a una società dei legami. Si torna a pensare che i diritti siano universali o non siano.
Lo dicono anche i dati: secondo una ricerca realizzata da Arci con Ipsos, più della metà dei giovani tra i 18 e i 30 anni non riesce a immaginare il proprio futuro. Un dato drammatico, che parla di una generazione privata di prospettive. Restituire senso alla partecipazione politica, rimettere in circolo la speranza collettiva, è quindi anche un dovere generazionale.
Questa campagna referendaria non nasce per testimoniare, ma per trasformare. Perché i referendum sono oggi uno degli strumenti più diretti con cui possiamo correggere scelte sbagliate fatte in nome del mercato. Sono una risposta concreta a chi ha accettato che il lavoro potesse essere sfruttato, che la precarietà fosse normale, che i diritti potessero essere una variabile dipendente dal profitto.
Raccogliere firme, discutere nei territori, convincere le persone a votare significa tornare a fare politica nel senso più pieno. Significa costruire una soggettività collettiva capace di contendere egemonia. Significa credere ancora, con coraggio, che cambiare è possibile.
Come diceva don Andrea Gallo, “osare la speranza” è il primo gesto rivoluzionario. Questi referendum sono una speranza che cammina. È già, comunque vada, un successo politico.