A partire dagli anni ‘90 si sono susseguite riforme del mercato del lavoro che hanno reso più precari i lavoratori, quindi, più ricattabili. Senza leggi che tutelino i lavoratori dalla perdita del posto di lavoro per decisione arbitraria del datore di lavoro, i diritti non sono esigibili. La paura di perdere l’impiego limita la libertà dei lavoratori di rivendicare il giusto trattamento economico, pretendendo il rispetto di leggi e contratto. Questa ricattabilità è una delle principali ragioni per cui i salari, in Italia, crescono meno che nel resto dell’Ue, si attestano sotto la media e i lavoratori poveri, a rischio di esclusione sociale, sono un quinto degli occupati. Si tratta di provare a invertire la rotta.

Marco e Luca lavorano in un’azienda di 200 dipendenti che ha annunciato 40 esuberi. Esperita con esito negativo la procedura di consultazione sindacale, l’azienda intima i licenziamenti, dichiarando di aver applicato correttamente i criteri di scelta dei licenziandi: verranno messi alla porta i lavoratori con minori carichi di famiglia e minore anzianità aziendale. Marco e Luca sono tra questi. Eppure qualcosa non torna: in base ai punteggi, al posto loro altri due dipendenti avrebbero dovuto ricevere la lettera di licenziamento.

Il giudice dà loro ragione: quei licenziamenti sono illegittimi. Ma mentre per Luca, oltre al risarcimento del danno, viene disposto il reintegro in servizio, a Marco viene riconosciuto solo un risarcimento economico. Entrati in azienda nello stesso anno, il 2014, Luca era stato subito assunto a tempo indeterminato, Marco come apprendista e aveva conquistato il tempo indeterminato solo nel 2017. Identica situazione, diverse le tutele per una mera questione di date. A Luca la restituzione della sua dignità di lavoratore, a Marco un piatto di lenticchie e una convinzione che si fa largo tra i pensieri: non è stato un banale errore quello dell’azienda, ma una scelta deliberata per liberarsi proprio di lui, che, al contrario dei due colleghi graziati, aveva preteso il pagamento dei sabati di straordinario.

A Laura è andata peggio. Dipendente da nove anni di una prospera agenzia di assicurazioni con cinque sedi e 54 dipendenti, è stata licenziata per soppressione della mansione. In realtà è stata sostituita da un apprendista. L’azienda se l’è cavata in conciliazione con un risarcimento di cinque mensilità. Non ha fatto causa, perché l’avvocato le ha spiegato che, secondo la legge, al massimo avrebbe potuto ottenere una mensilità in più, ma avrebbe dovuto chiamare i colleghi a testimoniare in tribunale contro il datore e non se l’è sentita di farli rischiare, se queste sono le tutele per un licenziamento illegittimo.

Daniela è un’infermiera professionale, assunta con contratto a termine di tre mesi, prorogato più volte. Non le pagano il notturno, ma non fa questioni: la priorità è ottenere il tempo indeterminato. Raggiunti i 12 mesi di rapporto, anche lei, come le colleghe che l’hanno preceduta in quella casa di cura, viene lasciata a casa. Al suo posto, adesso, c’è uno stagista. Non è giusto, si dice: l’azienda non può sostituirla così, solo per risparmiare sul costo del lavoro! Scopre invece che il contratto a tempo determinato non incontra alcun vincolo per i primi 12 mesi di rapporto, perché l’azienda non è tenuta a spiegare qual è l’esigenza temporanea che giustifichi un’assunzione a termine. Quest’obbligo scatta solo dopo 12 mesi, se il rapporto prosegue. Non solo è stata lasciata a casa senza alcun motivo, ma ha inutilmente stretto i denti, accettando in silenzio di essere sottopagata pur svolgendo un lavoro altamente qualificato.

Alessio aveva 26 anni. Dipendente di una piccola srl in subappalto incaricata della manutenzione degli ascensori di una nota catena della grande distribuzione, è morto sul lavoro. La sua ditta è fallita subito dopo. La famiglia, quindi, si è rivolta a un legale per far causa alla catena di supermercati. L’avvocato ha, però, spiegato loro che non è possibile. In questi casi, la legge esplicitamente esclude la responsabilità della committente per il risarcimento del danno. È proprio questo il problema, pensa la madre con rabbia: se la legge avesse previsto la responsabilità dell’appaltante, di fronte al rischio di dover pagare di tasca sua per i danni in caso di infortunio verificatisi anche nelle sue ditte appaltatrici, probabilmente non avrebbe affidato i lavori a una ditta del genere. Si sarebbe chiesta quali costi avrebbe tagliato per riuscire a offrire un prezzo così basso. Come il corso di formazione sulle misure di prevenzione degli infortuni, la cui frequenza avevano fatto firmare ad Alessio, anche se, in verità, a quel corso non era mai stato mandato. E il committente si sarebbe fatta carico dei controlli sul rispetto delle misure di sicurezza lungo tutta la filiera produttiva. Se questa responsabilità fosse stata prevista per legge, forse Alessio sarebbe ancora vivo.