Lea Ypi, Confini di classe. Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista, Feltrinelli, pagine 80, euro 10.

Lea Ypi costruisce in “Confini di classe. Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista” una critica organica e sistematica alla concezione contemporanea di cittadinanza nello Stato capitalista, sviluppando un’analisi che attraversa filosofia politica, economia e sociologia delle migrazioni. L’opera si articola come una decostruzione radicale dei presupposti ideologici che regolano l’accesso ai diritti politici e sociali nelle democrazie liberali avanzate, mostrando come dietro l’apparente universalismo dei principi giuridici si nasconda una struttura profondamente classista.

Il punto di partenza è la trasformazione storica del concetto di cittadinanza da strumento di emancipazione a dispositivo di controllo. Le lotte per l’allargamento del suffragio nel XIX e XX secolo hanno progressivamente eroso i criteri censitari e di genere che limitavano la partecipazione politica ma nel capitalismo contemporaneo si assiste a un’inversione di tendenza. Infatti, la cittadinanza viene sempre più mercificata, diventando un bene accessibile principalmente attraverso canali economici. Programmi come i golden visa in Portogallo, Malta o Italia (dove investimenti immobiliari o finanziari garantiscono accesso privilegiato alla residenza e alla naturalizzazione) dimostrano come lo Stato capitalista abbia sviluppato una vera e propria “industria della cittadinanza”, dove i passaporti vengono scambiati come asset finanziari.

Parallelamente per i migranti non abbienti si è creato un sistema di ostacoli burocratici e culturali sempre più sofisticato. Ypi analizza minuziosamente i meccanismi dei test di integrazione linguistica e civica, mostrando come questi riproducano, sotto nuove forme, le esclusioni del passato. Il requisito di conoscenza della lingua nazionale, ad esempio, riattiva barriere analoghe a quelle che nel XIX secolo impedivano il voto agli analfabeti o a chi parlava solo dialetti. Allo stesso modo, i test sulle “tradizioni nazionali” (come nel controverso caso britannico che include domande sulla monarchia o sul cricket) funzionano come dispositivi di selezione culturale più che come strumenti di reale integrazione.

Ypi attacca anche la retorica della “crisi migratoria”, dimostrando come questa nasconda la vera natura dei processi in atto. Analizzando i dati precisi sui flussi migratori nell’Ue e negli Stati Uniti viene meno il mito dell’invasione. I numeri assoluti dei migranti sono stabili da decenni mentre è cambiata radicalmente la loro composizione di classe. Se nel secondo dopoguerra prevalevano migrazioni di lavoratori non specializzati, oggi crescono invece i movimenti di professionisti altamente qualificati e di capitalisti transnazionali. Questo spostamento riflette la trasformazione del mercato globale del lavoro, dove lo Stato non è più principalmente interessato a reclutare manodopera a basso costo ma ad attrarre capitali e competenze competitive.

La parte centrale del libro è dedicata a smascherare quello che Ypi chiama “il grande inganno” del dibattito sull’immigrazione, ovvero l’idea che esista un conflitto inevitabile tra protezione del welfare state e accoglienza dei migranti. Attraverso un’analisi comparata dei sistemi di welfare europei, l’autrice mostra come i veri tagli ai servizi sociali derivino dalle politiche di austerity neoliberali e non dalla pressione migratoria. Anzi, in molti casi (come nel sistema pensionistico tedesco o nel Nhs britannico) i migranti rappresentano un contributo netto positivo alle casse pubbliche. La narrazione dello “straniero che ruba il lavoro” serve in realtà a distogliere l’attenzione dalla precarizzazione del lavoro e dallo smantellamento dei diritti sociali operato dalle stesse élite economiche che promuovono i discorsi anti-immigrazione.

Particolarmente originale è l’analisi del ruolo dei partiti di sinistra in questa deriva. Ypi traccia una genealogia precisa dell’abbandono progressivo della prospettiva di classe da parte della socialdemocrazia europea. Dagli anni ‘90 in poi molti partiti progressisti hanno infatti interiorizzato il frame neoliberale, accettando l’idea che la competizione globale richiedesse flessibilità del lavoro e restrizioni migratorie. Questo ha portato a paradossi importanti. In paesi come la Danimarca o l’Olanda governi formalmente di sinistra hanno implementato alcune delle politiche migratorie più restrittive d’Europa, inclusi i famigerati “corsi di valori nazionali” obbligatori per i residenti stranieri.

L’ultima sezione del libro propone una rilettura radicale del concetto di solidarietà. Ypi contesta sia il modello multiculturale (che frammenta la società in gruppi identitari) sia quello sovranazionale (che riproduce a livello continentale le stesse logiche escludenti dello Stato-nazione). La vera alternativa è ricostruire una solidarietà di classe transnazionale che riconosca nei lavoratori migranti e locali dei compagni di lotta contro un sistema che li sfrutta entrambi.