
Jacobin Italia n. 26, Il Sindacato Siamo Noi, Alegre, pagine 137 euro 13.
Con il numero 26 “Il Sindacato Siamo Noi” della rivista Jacobin Italia, la redazione affronta l’annoso tema della crisi del sindacato e di un suo possibile e necessario rilancio politico e organizzativo, visto il peggioramento delle condizioni della classe lavoratrice nell’ultimo quarantennio.
Per lo storico Sergio Bologna, che è stato tra i fondatori delle riviste Classe Operaia e Primo Maggio, il drastico peggioramento dei rapporti di classe è da attribuire alla liberalizzazione dei mercati finanziari incentivata da Bill Clinton, con tutte le conseguenze che hanno permesso anche l’incontrollato sviluppo delle piattaforme digitali. Mentre in Italia, con lo smantellamento dell’industria pubblica nel 1992 (“seconda repubblica”), si è passati traumaticamente dal modello assistenziale al modello neoliberale. Un modello che non ha mai contemplato alcuna negoziazione concertativa, a meno che i sindacati non si adattassero supinamente alla sua logica. Emblematiche sono state la vicenda della Fiat del 1980 e quella di Pomigliano d’Arco del 2011, con il tentativo di estromettere la Fiom dal perimetro della fabbrica.
Comunque Bologna, con la centralità assunta dalla logistica nell’economia globalizzata, ritiene che, proprio per il “potere posizionale” che lavoratori e lavoratrici possono esercitare nei punti nevralgici della catena del valore, questo fattore possa rilegittimare sia l’azione sindacale che gli stessi sindacati.
Il ricercatore della Rutgers University, Eric Blanc, si misura con le recenti mobilitazioni negli Usa nei magazzini Amazon, nei caffè Starbucks e nelle tre principali case automobilistiche grazie soprattutto all’autorganizzazione dal basso. Le sedi Starbucks sono 15mila: il sindacato ne ha organizzato 500, un numero sufficiente per aprire il tavolo delle trattative. Per Blanc questo processo è stato possibile perché molti militanti sindacali radicali hanno scelto di entrare in aziende strategiche per sindacalizzarle e prendere l’iniziativa nei luoghi di lavoro. In secondo luogo questo clima favorevole è dovuto al “crollo generalizzato della legittimità neoliberista dal 2008”, e all’idea, diventata senso comune, che solo organizzandosi si può contrastare il potere assoluto dei miliardari.
Il segretario della Fiom, Michele De Palma, sottolinea l’importanza dell’unicità del contratto dei metalmeccanici che riguarda due milioni di persone, segnalando le difficoltà che contraddistinguono la vertenza per il suo rinnovo. Al contempo lamenta come la desertificazione industriale che ha colpito il settore nell’ultimo trentennio, per le scelte di investimento in altri ambiti ritenuti più remunerativi, abbia fatto venir meno quella funzione di orientamento che questo contratto aveva storicamente per gli alti comparti. Stante la centralità della transizione tecnologica ed ecologica, De Palma insiste sulla necessità di una strategia di medio-lungo periodo che definisca i caratteri di una politica industriale finalizzata alla riconversione ecologica delle produzioni. La vicenda della lotta intrapresa dal Collettivo di Fabbrica della Gkn è paradigmatica in in questo senso, a partire dal rilancio della lotta dei lavoratori su cosa, come e quanto produrre.
Infine, la sociologa Lisa Dorigatti e il ricercatore Vincenzo Maccarone si interrogano sulle cause della stagnazione salariale nel nostro paese, dove, a fronte di un aumento medio dei salari del 32,5% nei paesi Ocse tra il 1991 ed il 2023, i salari sono cresciuti dell’1%, pur se la copertura dei contratti collettivi è del 98,7%. Il forte processo di deindustrializzazione della nostra economia a partire dagli anni ‘80, la sua progressiva terziarizzazione, e la prevalenza di un tessuto produttivo di piccole e medie aziende, hanno provocato un “indebolimento del potere strutturale del lavoro”, fotografato sul piano statistico dalla vertiginosa caduta dei conflitti di lavoro.
Sul mutamento dei rapporti di forza, anche per l’assenza di una sinistra di classe in grado di incidere sulla redistribuzione fiscale, hanno inciso altri fattori rilevanti, come l’abolizione della scala mobile e la concertazione a perdere del Protocollo interconfederale del 23 luglio1993. Il parametro dell’inflazione programmata si è rivelato una spada di Damocle per le dinamiche salariali. Inoltre, il 70% dei dipendenti non ha potuto esercitare il secondo livello di contrattazione, in quanto parte dei comparti del “piccolo è bello”, mentre i ritardi nel rinnovo dei contratti, compresi quelli del pubblico impiego, hanno concorso a deprimere ulteriormente la massa salariale.
Alla luce della ricerca dell’ufficio economico Cgil, che ha stimato in 6,2 milioni i dipendenti che guadagnano meno di 15mila euro lordi l’anno e in 10,9 milioni quelli che non superano i 25mila lordi annui, abbiamo una realistica chiave di lettura di come il declino del paese e la mutazione della composizione della forza lavoro abbiano prodotto una profonda regressione economica e sociale.