L’esito dei referendum non ha prodotto un risultato apprezzabile. È giusto parlare di sconfitta perché, nell’ambito dello strumento referendario, il mancato raggiungimento del quorum questo è.

La partecipazione al voto ci consegna un quadro non nuovo nelle sue macro caratteristiche: differenze tra nord, centro e sud, tra aree metropolitane e aree interne, tra periferia e centro delle città. Soprattutto ci conferma che la democrazia, nelle diverse occasioni di consultazione elettorale, è in profonda crisi.

Il recupero al voto delle fasce di astensione, che secondo qualche studio pure c’è stato, è insufficiente e lontano dall’influire ai fini del risultato generale. Alla prova dei numeri non si registra una capacità di penetrazione nella società italiana su una proposta generale e di classe come quella che ha provato a rappresentare il referendum in tutti e cinque i quesiti.

Non si è affacciato un blocco sociale che, per via istituzionale, abbia provato a far sentire la propria voce. Inoltre l’esito del referendum sulla cittadinanza lancia un’ombra cupa sul grado di coscienza in seno alla stessa base di consenso dei referendum sociali. Quel risultato rappresenta in maniera plastica quanto l’egemonia culturale sia in mano alle destre.

Indipendentemente dalla nostra volontà, non si sono determinate le condizioni di “depoliticizzare” la consultazione referendaria. Soprattutto la destra politica ha politicizzato la campagna referendaria. Le massime cariche del governo e dei partiti di maggioranza, a partire dalla seconda carica dello Stato, hanno lavorato contro la stessa idea di partecipazione al voto, con lo scopo preciso di non affrontarne i contenuti ma di cambiare il senso della consultazione da referendum a favore dei diritti a referendum sulle opposizioni, come lo ha definito la premier Meloni.

Nonostante l’esito negativo la proposta di futuro e democrazia che ha caratterizzato l’impianto politico culturale della campagna referendaria non è certo da abbandonare. Bisogna interrogarsi su come, nei prossimi mesi, nei prossimi anni, rimettiamo in campo una prospettiva di lavoro sindacale che faccia della piattaforma referendaria una piattaforma sindacale. Avendo la capacità di valorizzare quanto di positivo ha accompagnato e caratterizzato l’impegno di tutta la campagna referendaria, dalla raccolta di firme fino al voto.

Reti e alleanze sociali, forme di attivismo collettivo e individuale, occasioni di incontro e confronto sono solo alcuni degli aspetti dei quali fare comunque tesoro. Senza enfatizzare e senza banalizzare ciò che è stato. Amarci senza essere innamorati di noi stessi è un requisito per cercare una prospettiva collettiva condivisa, centrata innanzitutto su un’idea di democrazia partecipata che è propria dello spirito della nostra carta costituzionale.

Il tema della democrazia e della partecipazione rappresenta un elemento di libertà imprescindibile per chi, come noi, ambisce alla trasformazione della società. Rivendicare la costruzione di una società più democratica, di persone libere e uguali nei diritti collettivi, significa mettere in campo una pratica coerente.

Non c’è bisogno di un congresso anticipato, tanto meno di un congresso del solo gruppo dirigente, né di fare una discussione che rappresenti ragioni e torti del dibattito pre referendum. Non c’è bisogno di scorciatoie politiciste. Serve una grande discussione partecipata che sia, come è già successo nella nostra storia, un’occasione larga di confronto, a partire dalle assemblee generali territoriali di categoria, per salire nei diversi livelli verticali e orizzontali.

Dobbiamo dotarci degli anticorpi di fronte al pericolo di forme di corporativismo settoriale o territoriale, alla possibilità di gerarchizzazione della discussione con comportamenti conformisti nel gruppo dirigente che favorirebbero la burocratizzazione dell’organizzazione. Un confronto profondo, libero, che dia valore al nostro essere sindacato generale, democratico, in grado di coniugare pluralismo e unità come patrimonio di una cultura collettiva di tutta l’organizzazione. Un grande esercizio di democrazia, di partecipazione, che sia una pratica costante e coerente nel rapporto con la nostra gente da parte di chi la democrazia la rivendica nel Paese. Un grande confronto che ragioni di salario, di contrasto alla precarietà, di orari e ritmi di lavoro, di dignità e diritti nel lavoro, di stato sociale e diritti sociali.

Il congresso avrà il compito di mettere al centro il nostro essere sindacato generale, “deprofessionalizzando” il mestiere del sindacalista, risindacalizzando i luoghi di lavoro e la società, innanzitutto con una rinnovata cultura sindacale dell’universalismo dei diritti, dell’uguaglianza e dell’equità, della contrattazione e della lotta come programma strategico per gli anni a venire.