Dal 15 al 18 maggio scorsi ho fatto parte di una delegazione della società civile italiana che si è recata a Ustica per rendere omaggio alle vittime della deportazione coloniale italiana. L’iniziativa, promossa da Un Ponte Per e Arci Nazionale ha visto l’adesione di realtà locali ed associazioni nazionali ed è stata organizzata con l’ausilio del preziosissimo “Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica”.

Un viaggio della memoria seguendo le tracce lasciate dal passato coloniale italiano. Un viaggio che ha interrogato tutte le persone della delegazione, che si è fatto specchio di una storia collettiva ingombrante, volutamente rimossa. Un viaggio per restituire voce e dignità ai deportati libici e per reclamare una “Giornata della Memoria” per le vittime del colonialismo italiano.

Non è stato un semplice ripercorrere eventi storici, ma un’immersione profonda in un passato che, per troppo tempo, è rimasto celato. Per svelare quelle verità scomode che, per troppe generazioni, sono state volutamente negate, persino escluse dai programmi scolastici.

A Ustica, tra rocce scure e acque cristalline, si annidano le tracce di un passato meno glorioso, un capitolo in cui l’isola divenne luogo di confino. E tra i confinati, non solo oppositori politici, ma anche numerosi libici, eritrei e altre persone provenienti dalle colonie o dalle aree d’influenza italiana. La loro presenza nella piccola isola non era casuale: era parte di una più ampia strategia di controllo e gestione delle “alterità” che la potenza coloniale riteneva minacciose o semplicemente “scomode”. Ustica, dunque, come un microcosmo che rifletteva le dinamiche di potere e sottomissione del più vasto impero italiano. Le voci di queste persone, spesso sommerse o dimenticate, hanno iniziato a risuonare tra le strade dell’isola, rendendo la visita un vero e proprio “viaggio acustico” nella storia.

La prima nave di deportati arrivò ad Ustica il 29 ottobre del 1911. L’allora primo ministro Giolitti, nel silenzio della stampa italiana, ordinò la deportazione di massa come reazione alla sconfitta subita dal regio esercito, il 23 ottobre del 1911, a Sharaa al-Shatt, villaggio vicino Tripoli. I deportati vennero rastrellati per strada, nelle case, interi villaggi furono svuotati e le loro popolazioni, trasferite con la forza in campi di internamento. “Dobbiamo dare l’esempio”, affermò Giolitti. Così, 919 persone sbarcarono sull’isola dalla nave Rumania. Li “scaricò”, per citare i documenti ufficiali, come fossero merce. Durante la navigazione a bordo della nave scoppiò un’epidemia di colera.

Vito Ailara, presidente del “Centro Studi e Documentazione Isola di Ustica”, ci ha riportato il racconto narrato dalla zia ultracentenaria, allora bambina, racconto tramandato negli anni, il ricordo dell’arrivo della nave che, una volta sbarcati i deportati, girò dietro la punta del molo per gettare in mare i corpi dei libici morti durante la navigazione. Vite spezzate e fatte diventare anonime. Tra il 29 ottobre 1911 ed il 9 giugno 1912 furono 127 le vittime tra i deportati causate dall’epidemia di colera, oltre le cinque gettate a mare.

Più avanti, con l’avvento del regime fascista, ad Ustica vengono deportati anche gli oppositori antifascisti. Ai primi di dicembre del 1926, in applicazione di una delle leggi “fascistissime”, quella sul confino politico, arrivò Antonio Gramsci che si aggiunse ad altri oppositori, già presenti nell’isola. Due giorni dopo arriva anche Amedeo Bordiga. E furono proprio Gramsci e Bordiga che, in un ambiente a dir poco disagiato, ebbero l’intuizione di creare una scuola, pensata e costruita non solo per i confinati ma per tutta la popolazione dell’isola. Una scuola per evitare l’abbrutimento e per giovare agli altri, scrive Gramsci. Una scuola aperta a tutti, tutti potevano essere insegnanti e tutti potevano essere alunni. La maggior parte degli studenti erano semi-analfabeti.

Con il confino politico il regime pensava di mettere a tacere gli oppositori ma ottenne l’effetto contrario. Ad Ustica si ritrovarono oppositori di tutte le culture politiche, comunisti, socialisti, anarchici, e questa rappresentanza era organizzata e finanziata dal regime stesso. Ai confinati veniva riconosciuta, oltre all’alloggio, anche una diaria. Ed è con orgoglio che Vito Aliara sostiene che ad Ustica, in un contesto di repressione, è germogliata l’idea della Resistenza.

E così, con un sottile filo rosso, la scuola per i confinati si è collegata al protagonismo degli studenti di Ustica che hanno partecipato al corteo che ci ha accompagnato fino al cimitero dei deportati libici, dove è stata apposta una targa commemorativa ed è stato piantato un ulivo che, proprio gli studenti, hanno voluto chiamare “Anonimo” come le tante vittime sepolte nel cimitero senza un nome.

Chiara, studentessa della classe terza del liceo scientifico, ci ha emozionato, ricordandoci come la libertà di cui godiamo oggi non è scontata, e che, se possiamo beneficiarne è perché, in passato, c’è stato chi ha lottato e resistito per ottenerla e per consegnarcela. Nella semplicità del pensiero di Chiara il senso più ampio del “Viaggio della Memoria ad Ustica”.

È ormai irrinunciabile, infatti, che l’Italia faccia i conti con questo passato coloniale. Solo attraverso una sincera e approfondita analisi delle sue responsabilità storiche potremo dotarci di lenti più oneste per osservare le attuali e complesse situazioni geopolitiche del Mediterraneo, del Medio Oriente e del Nord Africa.

Le politiche di gestione dei flussi migratori, in particolare, sono spesso figlie dirette del passato coloniale europeo. I confini che oggi tentiamo di blindare, le rotte che i migranti percorrono disperatamente, sono per molti versi una conseguenza delle profonde alterazioni socio-economiche, politiche e identitarie lasciate in eredità dal colonialismo. I Paesi da cui oggi provengono la maggior parte dei migranti sono le stesse nazioni che in passato sono state assoggettate e sfruttate dalle potenze europee, Italia inclusa. La loro instabilità, le loro difficoltà economiche e le loro tensioni sociali affondano spesso le radici in quell’epoca. Non possiamo pretendere di risolvere le crisi migratorie senza riconoscere il ruolo che la storia coloniale ha giocato nel crearle. Un’Italia che si confronta con il proprio passato coloniale sarà un’Italia più matura, più credibile e più capace di costruire relazioni autentiche e sostenibili con i Paesi del Sud globale, basate sul rispetto e sulla comprensione reciproca.

Ad Ustica abbiamo avuto modo di ascoltare voci sommerse. Le poesie dei confinati, libici o oppositori politici italiani, ci hanno restituito una dimensione umana e sofferta di quella storia. Penso alle parole di Fadil Al Shalmani che, nel sognare la sua terra lontana, scriveva: “Uccello che ti libri in aria e volteggi nel cielo! Dio ti ha dato due ali. Avvicinati, potrò raccontarti cosa ci è successo”. O a quelle di Silvio Campanile, confinato politico italiano, che da Ustica osservava un mare che non era libertà ma prigionia: “Ed io che in quest’isola gettato fui portato dal fato incerto. Quante volte, nascosto, v’ho guardato. Ribelli del deserto”. Spesso le loro parole erano un lamento, una protesta, una speranza tenace. Sono frammenti di un’umanità che, pur nella coercizione, trovava nella parola poetica un barlume di resistenza.

Riconoscere questi versi, inserirli nel nostro racconto collettivo, significa non solo onorare la memoria di chi ha sofferto, ma anche capire che le logiche che hanno portato al confino di esseri umani, alla negazione della loro libertà e dignità, non sono scomparse. Sono semplicemente mutate, assumendo nuove forme e nuovi nomi, ma continuando a disegnare le mappe della nostra geopolitica contemporanea.

Il viaggio della memoria ad Ustica non è un’escursione nel passato per il passato, ma un monito a confrontarsi con le ombre del nostro ieri per illuminare il nostro oggi, per comprendere che le dinamiche del colonialismo, pur con vesti diverse, continuano a tessere la trama delle relazioni internazionali nel Mediterraneo e oltre. A noi la responsabilità di portare avanti questo testimone, costituito dalla forza dirompente del riemergere di verità nascoste. E, come ci ha ricordato Marina Pagano, docente di lettere, citando Carlo Levi, possiamo usare le parole come pietre. Pietre che possono essere scagliate, ma anche usate per costruire.

Il recupero della memoria nascosta può avere una forza dirompente. Quando una storia a lungo silenziata torna a galla, essa non è solo un fatto storico, ma un elemento vivo capace di generare nuove consapevolezze. Nel suo piccolo, per Ustica, questo significa riconoscere le vittime, dare voce a chi non l’ha avuta, restituire dignità e identità a persone e comunità dimenticate. Permette di svelare le continuità, di comprendere come determinate logiche e mentalità del periodo coloniale abbiano lasciato tracce, anche inconsce, nel presente.

Infine serve a mettere in discussione le narrazioni dominanti: il recupero della memoria nascosta sfida le versioni ufficiali della storia, invitandoci a una rilettura critica del passato.