
Lo sciopero del 3 giugno scorso proclamato da Slc Cgil e Uil Poste.
Poste Italiane continua a essere il banco di prova del capitalismo neoliberale all’italiana. Un colosso ancora a maggioranza azionaria pubblica ma gestito come un’impresa privata: oltre 120mila dipendenti, 12.500 uffici, utili record (2 miliardi nel 2024, con un aumento del 4,1% sul 2023), capace di trasformarsi in banca, compagnia assicurativa, operatore energetico, servizio di corriere per lo shopping online, fornitore di servizi pubblici.
Dietro il successo finanziario, però, si nasconde un modello di lavoro segnato da precarietà, part time involontario, contratti a termine e sfruttamento sistematico della posizione dominante sul territorio. Un’azienda che si muove come una multinazionale e che, non a caso, ha deciso di sperimentare anche un nuovo assetto delle relazioni sindacali: meno rappresentanza, più controllo.
Negli ultimi anni la strategia è diventata evidente. Dopo la vittoria della Cisl nelle elezioni Rsu del 2023 (oltre il 50%) grazie ad una meticolosa presenza di questa organizzazione nei quadri intermedi e negli snodi di potere aziendali, è seguita la rottura del fronte sindacale unitario durante il rinnovo del contratto nazionale. Nonostante un’ipotesi di accordo firmata da tutte le sigle, la Cisl ha scelto la via delle assemblee separate, spalleggiata da tre sindacati autonomi poco rappresentativi, Ugl, Confsal e Failp, rompendo di fatto l’unità d’azione con Cgil e Uil.
Il risultato? Un paradosso: lo stesso contratto presentato ai lavoratori da tre gruppi sindacali diversi, in tre momenti distinti, con la Cisl che – senza attendere l’esito delle altre consultazioni – ha comunicato all’azienda l’approvazione dell’accordo. Da lì in avanti ha imposto un tavolo riservato per la gestione delle concrete ricadute contrattuali e di riorganizzazione aziendale, escludendo di fatto Slc Cgil e Uil Poste.
Nel frattempo, mentre si costruisce un modello di rappresentanza addomesticata, l’azienda – con il via libera di sindacati compiacenti – porta avanti un piano di tagli agli uffici postali, spesso giustificati con la scusa della razionalizzazione. La verità è che la carenza di personale sta diventando strutturale e colpisce in modo pesante soprattutto le aree interne e i piccoli comuni, con disservizi evidenti per l’utenza e uno smantellamento di fatto del servizio universale.
Il sospetto, sempre meno velato, è che questi tagli e questa compressione del costo del lavoro siano funzionali a un disegno più grande: la futura ulteriore privatizzazione di quote di Poste Italiane. Si parla apertamente della possibilità di mettere sul mercato nuove quote azionarie oggi in mano al Tesoro. E allora tutto torna con la vecchia ricetta: meno costi e più profitti. E come si fa? Si taglia sul personale e si chiudono gli uffici, per far risaltare i risultati azionari nel breve termine e invogliare gli azionisti. Il tutto sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini.
In questo contesto, Slc Cgil e Uil Poste hanno proclamato uno sciopero nazionale per il 3 giugno. Uno sciopero per denunciare proprio questo sistema: un’azienda che seleziona con chi trattare, escludendo i sindacati scomodi dalla discussione sull’applicazione concreta del contratto collettivo. Un contratto, ricordiamo, che anche Cgil e Uil hanno firmato. Le rivendicazioni dello sciopero sono chiare: stop all’abuso dei contratti a termine, al part time involontario, alla chiusura degli uffici postali, al mancato pagamento delle trasferte.
E’ qui che passiamo al grottesco ed arriva la mossa della Cisl e dei sindacati autonomi che – in pieno stile aziendalista a sciopero ancora in corso – hanno diffuso dati fuorvianti per screditare lo sciopero e sminuirne la portata. Ma il vero capolavoro arriva il giorno dopo: l’azienda convoca un tavolo con tutte le sigle sindacali. La Cisl, presa in contropiede, protesta. Perché se l’incontro fosse letto come una risposta allo sciopero, si certificherebbe di fatto il suo successo.
Ed ecco la regia finale: l’azienda obbedisce immediatamente alla Cisl e si affretta a chiarire che la convocazione “non è una conseguenza dello sciopero”. Una precisazione surreale, che dice tutto. Un vero gioco di squadra fra azienda e sindacati amici per negare l’evidenza e tenere fuori chi rappresenta davvero i lavoratori.
Siamo di fronte a una dinamica pericolosa: si crea un sindacato di governo, unico interlocutore aziendale, mentre gli altri vengono messi all’angolo. Intanto si riducono presìdi, si comprimono diritti e si peggiora la qualità dei servizi.
Questo schema non può passare sotto silenzio. Va contrastato ora, prima che diventi il modello per Confindustria.